Fabio Palma

Infinite jest

V., di T. Pynchon

| 0 commenti

Se cercate un libro emotivo, emozionante, di quelli che cambiano temperatura alla punta dei capelli, V. non è QUEL libro ed è da rimandare ad un periodo diverso. Perchè V. è un esercizio di tecnica e di stile di uno scrittore che ha voluto descrivere gli anni ’50 della società americana (già: gli Happy days. Ma che differenza fra Fonzie e compagni rispetto ai ragazzi della società dei morbosi) prendendo allo scopo un po’ di storia del colonialismo inglese agli inizi del ‘900 e inventandosi una trama che parte da uno Stencil padre-spia inglese ad uno Stencil-figlio spia delle sue ossessioni.
Su Web ho trovato molte volte la definizione di difficile appiccicata a questo romanzo immenso: la difficoltà può generarsi da una complessità o da una situazione complicata, e per addolcire almeno questo secondo punto consiglio vivamente di appuntarsi fin dal primo capitolo nomi e brevissimi C.V. dei singoli personaggi, che sono oltre un centinaio. Questo per evitare che accanto ai due protagonisti immediati, Stencil figlio e Profane, ci si perdi in un dedalo di nomi e soprannomi. Pynchon fa di tutto per complicarti la lettura del romanzo, chiamando lo stesso protagonista ora col nome, ora col cognome. E poi salta da una data all’altra da capitolo in capitolo, come se la confusione fosse un dato di fatto, nella vita reale e romanzata. Intanto, però, dà vere e proprie lezioni di stile ( pag. 78,82,86,221,238,239,349, 355. Pagine perfette) e si permette pure il lusso di fare il Faulkner nel capitolo 9, come a fugare ogni dubbio sulla sua reale consistenza di scrittore. Già, perchè altrove è quasi costretto, dai personaggi che descrive, a correre sul filo della volgarità, con un vocabolario ricco ma mai elaborato. Non ci sono i barboni che parlano come un letterato, come accade in Wallace. Non c’è mai lirismo ( se non ,appunto, nel capitolo 9), ma ci sono, semplicemente, pagine sensazionali, nella loro linearità, come questa

Lei lo inquadrò subito.
Era il perfetto Fraternity boy appena uscito da un’università della Ivy league, il quale sa che non smetterà mai di essere un fraternity boy finchè campa. Però avverte che gli manca qualcosa, ed è per questo che frequenta la banda dei morbosi, pur restandone ai margini. Se deciderà di fare il dirigente d’azienda, scriverà anche. Se farà l’ingegnere o l’architetto, ebbene, si darà anche alla pittura o alla scultura. Si barcamenerà sempre fra due linee di condotta diverse, pur rendendosi conto che così facendo ottiene la parte peggiore dei due mondi, però non smetterà mai di chiedersi perchè debba esserci una linea di divisione fra le due cose, sempre che tale divisione esista. Imparerà come si fa a essere doppi, e continuerà in questo suo gioco, tenendosi a cavallo dei due mondi, finchè non si spezzerà in due per la tensione prolungata, e sarà un uomo finito. La ragazza assunse la posizione di danza numero quattro, si voltò, portò il seno a un angolo di quarantacinque gradi rispetto al raggio visivo dell’uomo, il naso in direzione del suo cuore, e lo guardò dal basso in alto, da dietro le sue sopracciglia, sbattendo le palpebre.
“da quant’è che sei a New York?

Ecco, di Situazioni come queste Pynchon ne dipinge, a occhio e croce, un migliaio. Senza acrobazie linguistiche, senza particolari brividi o uso di una lingua indimenticabile. Eppure, rasentando, e a mio parere spesso raggiungendo, la perfezione. La Situazione, ecco la parola chiave di Pynchon.

In generale, l’ho trovato molto meno difficile, alla lettura, di romanzi come Assalonne Assalonne o Rayuela, perchè non vi sono sperimentazioni di linguaggio nè forme particolari. La concentrazione esatta da questo immenso romanzo polifonico, però, è totale.

Lascia un commento