Fabio Palma

Infinite jest

I COLLOQUI

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Tuomas Holopainen, intanto, era un bambino.
Davanti a lui, ogni mattina, si stendeva una monotona distesa di verde, con deboli spazi e riflessi uniformi.
«Tuomas diventerà qualcuno, sai?».
«Qualcuno come?».
«Come nessuno. Hai visto, anche ieri ne ha letto un altro».
«Credi che i libri lo renderanno diverso da noi?».
«Io penso di sì». Diede un bacio alla fronte della donna e uscì, nello stesso istante di ogni mattina. L’abitudine un rito.
Quando finiva la scuola, in estate, Tuomas raggiungeva il padre nel bosco finto, e approfittava della luce perenne. Guardava il padre e gli altri adulti ora frenetici ora lenti e misurati, tagliare, abbattere, accumulare. Gli alberi, una risorsa. Così aveva letto. «Papà, io leggo sulla carta che produci, sai?».
«Sì» gli aveva risposto il padre, «il mondo è così. Ognuno deve fare qualcosa per gli altri. E noi tagliamo gli alberi affinché si insegni».
«Si insegni a chi?».
«Beh, a tutti. Ai bambini. Ma anche agli adulti. Ogni libro è una lezione, no?».
Già a quell’età, ai bambini si insegnava il lavoro. Il taglio, l’ordinare, il produrre.
«Non gli fai fare qualcosa, a Tuomas?».
«Sta osservando».
«Osservando? Ah» gli rispondevano.
«Lui sa capire le cose. Le guarda diversamente» aggiunse il padre.
Da quelle parti certi giorni erano smilzi, senza grasso alcuno. Si poteva pensare, anche perché non c’era molto da fare. A scuola Tuomas era così bravo da potersi permettere di fissare le maestre con i pensieri molto più in là di muri, cortili, penisole. Pensieri spesso intrecciati, ma alla fine, sempre e comunque, depositati come limo su un fondo costituito da alberi. Alberi. Quelli fuori di casa, quelli tagliati e accatastati come giganteschi bastoncini di pesce, quelli che venivano su con velocità rigorosa e prevista. Soltanto ai margini di quel piccolo e piatto mondo gli alberi erano cresciuti senza troppe pressioni.
Aveva dieci anni quando osservò che gli alberi più bassi erano come più forti. A volte morivano, è vero, ma per mancanza di luce, non per malattie interiori. Quelle che attaccavano, invece, le conifere più alte e maestose.
Tuomas non diceva mai nulla agli altri e parlava poco anche con se stesso, e allora non si disse che aveva notato come gli alberi altissimi erano pieni di insetti, mentre altri più bassi avevano la corteccia pulita e deserta di attacchi. Non si disse neppure, qualche mese più in là, che degli alberi rimanevano bassi senza apparente motivo, così, magari lontani da vicini più pronti nel crescere. Rimanevano chini quasi fosse un’intima scelta.
Seduto, osservava, e con gli anni continuò meramente a guardare le cose, le stesse cose che guardavano gli altri. Su cui lavoravano gli altri. Si potrebbe dire, un’occhiata incessante.
Anni dopo formulò una teoria, e cioè che le piante avevano degli ormoni che rispondevano a degli speciali sensori che le foglie avevano disseminato in ordine sparso. Questi ormoni spingevano la crescita, mentre altri erano dedicati a schierare difese chimiche indigeste ai nemici. Era una questione di energia, come, qualcuno dice, lo è tutto il divenire o il regredire del mondo, e perfino cose nostre come baciarsi, piangere o sentirsi assalito dall’onda lunga della tristezza. Per gli alberi, i cui sentimenti sono ancora di là da sondare, la questione energia era, aveva pensato Tuomas dopo anni e anni di guardare, guardare, e ancora guardare, un duopolio di scelte. Impiegarla nel difendersi dagli insetti, o nel crescere per tendere alla luce più svelti.
Forse la pianta decide come meglio far fruttare la propria energia, si disse. Perché, cresciuto, ora si ripeteva spesso le cose. Ad alta voce, per giunta.
Lo disse prima a se stesso, e poi lo scrisse, in un articolo poco diffuso. Quando scomparve, senza un preciso perché, pochi colleghi si allarmarono e la stessa denuncia fu fatta per dovere e poco convinta. Passò di mano in mano e di computer in computer, fino ad arrivare sotto gli occhi di Rudy.
Lavorare. Che nobilita l’uomo, lo sappiamo, e quando ce ne dimentichiamo non mancano personalità al di sopra di ogni sospetto che ce lo ricordano con panegirici intensi e copiosi.
Quale lavoro? Qualcosa che la facesse scavare negli sguardi. Puntare gli occhi in quelli di un altro, dargli prima fiducia e poi allarmarlo, fino a sentirne l’odore acre della paura. Si fece assumere in una multinazionale, ufficio del Personale. Avrebbe selezionato la gente.
Iniziò così.
«Quindi lei cerca…».
«Responsabilità, mi piace gestire le persone».
«Il potere, quindi».
«Beh, controllare le risorse, potere è una parola forte».
«Supervisionare…».
«Sì, ecco…».
«Condurre, gestire».
«Appunto».
«Per il suo successo».
«Beh, per quello dell’azienda, anche».
«L’azienda. Cos’è per lei? La definisca».
«Una famiglia».
«Una grande famiglia».
«Sì, grande».
«Interessante. Anche in una piccola azienda vede una grande famiglia?».
«Beh, sì, non è il numero che conta».
«E cosa?».
«La dimensione… cioè, l’attaccamento delle persone. Io vivo per l’azienda, se l’azienda mi dà responsabilità».
«Qualunque cosa faccia?».
«Mah… sì, direi di sì. Il contenuto è secondario. Successi e sconfitte. Voglio dire, ciò che conta sono queste cose qui».
«Capisco. E la carriera?».
«Beh, è importante, certo».
«Scalare la gerarchia aziendale».
«Sì, certo, nell’azienda».
«Come scalare di ruolo in una famiglia».
«Sì… sì… crescere nella famiglia».
«Ma se questo volesse dire far fuori qualcuno? Metaforicamente, dico».
«Nel senso di spodestare?».
«Sì. Supponga di essere nella famiglia, e di voler diventare padre. Capofamiglia».
«Succede anche in natura, non ci vedrei niente di male».
«Come quando un leone diventa vecchio e i giovani lo cacciano o lo sbranano per prendergli il posto».
«Beh… sì, è un’immagine forte. Ma direi di sì».
«E se succedesse a lei?».
«A me?».
«Sì. Non penserà mica di non invecchiare mai, nel branco. Volevo dire nella famiglia».
«Lo accetterei, penso».
«Pensa».
«Sì… penso di sì. Magari soffrendone. Soffrendone un po’».
«Una ruota».


«Come dice, scusi?».
«Una ruota. Prima lei fa fuori gli altri, e poi un bel giorno arrivano i giovani a far fuori lei».
«Beh… un po’ crudo, però penso sia così».
«E la libertà?».
«Scusi?».
«La libertà. La sua. La sua autonomia. Possibilità di fare, capisce? Mi spiego?».
«Beh, sì… mah… non penso mi mancherebbe».
«Lei dice?».
«Direi di sì».
«Lo sa che un capo-branco non può fare ciò che vuole? Se lei si assume delle responsabilità, le rimane ben poco tempo libero. Ben poca libertà».
«Mah… ma la mia libertà è nel condurre gli altri verso il successo».
«Lei dice».
«Sì, dico di sì».
«E se l’azienda dovesse chiederle di spostarsi di 1000 km, di abbandonare le sue radici? Tutto?».
«Per motivi di lavoro?».
«E di cosa stiamo parlando?».
«Sì… volevo dire, per motivi di logistica».
«Di logistica… o per motivi di cui non le è dato di sapere».
«Capisco».
«Non so se capisce fino in fondo».
«Prego?».
«Le sto dicendo che da una mattina alla sera le chiedono di muoversi».
«Sì, l’ho capito».
«E quindi anche di lasciare responsabilità in cui si sentiva sicuro. Le dicono che è una nuova sfida».
«Nuove responsabilità?».
«No. Lei para sempre lì. Invece l’azienda, per compensarla di certi successi, le propone di gestire da solo un progetto».
«Da solo».
«Da solo. Responsabilità di se stesso».
«La vedrei… non è una retrocessione?».
«Me lo dica lei».
«Prego?».
«Me lo dica lei. Siamo qui per questo».
«Sì. Mi scusi».
«Non deve scusarsi. Solo rispondere alle mie domande».
«Sì. Mi scusi. Cioè, volevo dire, non è facile».
«Cosa?».
«Lei mi fa domande difficili».
«Non mi pare. Le illustro situazioni».
«Sì».
«Per esempio, qual è il suo stile di vita?».
«Prego?».
«Stile di vita. Quello che contraddistingue la sua vita privata. Sport, letture, hobby. Pratica qualche sport?».
«Qualcosa. Un tempo giocavo a pallavolo».
«E ha smesso».
«Sì. Sa, l’università».
«No, non so. Mi racconti».
«Beh, non riuscivo a gestire gli studi».
«Le piace la parola gestire».
«Sì… la uso un po’ spesso. Mi scusi».
«Le ho detto di non scusarsi. Comunque mi sta dicendo che non riusciva a giocare a pallavolo e a studiare».
«Sì, gli allenamenti…».
«Non bastava organizzarsi un po’?».
«Beh… forse ero giovane. Sono stato precipitoso».
«Non si sente più giovane?».
«Mah, non ho più 20 anni».
«Pericolosa, come affermazione».
«Prego?».
«Dico, se non è più giovane, quelli veramente giovani inizieranno già a spodestarla dal suo ruolo».
«Ah… beh, ma nell’azienda conta anche l’esperienza».
«Dice?».
«Beh, sì. L’esperienza è fondamentale. Si impara a riflettere, a…».
«Einstein scoprì la teoria della relatività senza bisogno di alcuna esperienza».

«E non fu il solo a non aver bisogno di quella che lei chiama Esperienza, con la E maiuscola. L’esperienza serve ai medi, cioè ai mediocri. Che hanno bisogno di tempo per imparare ciò che i geni assimilano in secondi. I mediocri sono lenti, e accusano i veloci di non conoscere la pazienza, la contemplazione… tutte palle, sa? I veloci contemplano tanto quanto i mediocri, solo che lo fanno in breve. In sintesi. Perché guardano e integrano. Capiscono. Digeriscono. E accumulano. E costruiscono. In secondi. Quella che lei chiama Esperienza è la scusa dei mediocri, che affossano i geni, specie se giovani, perché invidiosi e terrorizzati di perdere il proprio scettro. Conquistato con anni di lentissima tessitura. Sa quanti anni ho?».
«…No… no… insomma… non si chiede a una donna, no?». Cercò di ridere, poi sorrise. Ma ebbe il tempo di un attimo. Come un flash di una macchina fotografica, fu attraversato dal velocissimo pensiero di voler essere lontano da lì.
«Non me l’ha chiesto. Glielo sto dicendo io».
«Sì».
«Ne ho diciannove. Dieci meno di lei».
«Sì… com… complimenti».
«Grazie. Però eravamo rimasti allo stile di vita. E al suo ruolo nell’azienda. Traballante, direi, perché una come me potrebbe già cercare di farle le scarpe».
«Sì, signora».
«Signora? Ho diciannove anni. Presto per essere una signora».
«Sì. Mi scusi… non volevo offenderla».
«Non mi ha offeso. Solo che la vedo confuso».
«Sì… effettivamente… effettivamente mi aspettavo un colloquio diverso».
«Non è tranquillo?»
«Mah… non è questo…».
«Cos’è, allora?».
«Lei è molto… d’attacco…».
«Dice».
«Beh, sì… io…».
«Sa, posso dirle una confidenza?».
«Certo».
«La vedo confuso sui suoi valori».
«Dice?».
«Già».
«Mah, è che…».
«È tremendamente confuso, lei».
«Sì… è che…».
«Dovrebbe essere più pratico. Più sicuro di certe sue stesse ammissioni».
«Sì».
«Non si offenda. Si è offeso?».
«No… ».
«Bene. Può andare, mi farò sentire, nel caso».
«Sì».
«Le auguro buona fortuna».
«Sì».
«Giornata bastarda, oggi, eh?».
«Prego?».
«Dicevo per il tempo. Un vento che ti entra dentro».
«Sì. Ha ragione».
«Già. Anche se vento ce n’è pochino. Arrivederci».
«Una volta si presentò un tipo sul riflessivo, con la pelle del viso come una buccia di agrume, corrugata dall’osservare, sempre e comunque. Aveva modi tranquilli, si sedette con calma, esordì con flemma, proseguì con parole misurate. Ogni gesto una prolunga».
Era molto sicuro della sua velocità, del modo giusto di correre, così Genius gli fece una domanda, interrompendolo. Si vide che non l’aveva presa bene, l’interruzione, lo si notò da un grumo di espressione raccolto sul sopra ciglia destro, e Genius intravide la possibilità di divertirsi.
«Lei è mai stato in montagna?».
«Sì, certo. Ci vado spesso. Anche a scalare».
«Ah, è un alpinista?».
«Sì, potrei definirmi così. È la mia passione, ci vado ogni week end».
«E dove va? Mi racconti. Anche a me piace la montagna».
«Oh, ci ritroviamo, in due o tre. Sa cos’è una cordata?».
«Certo» rispose Genius. «Me ne intendo, un po’. Ho letto alcuni libri».
Voleva farlo parlare.
«Davvero? Per me è stupendo, andare in montagna. Permette di riflettere sulla vita, di muoversi con calma, nel silenzio della natura. Percepire gli odori, osservare senza stress i colori, le forme. La montagna è così diversa dal mondo che ci siamo costruiti. In montagna trovo me stesso, e riesco a farlo con i miei amici. E lo si può fare lentamente, gustando fino in fondo quello che tocchiamo o sfioriamo».
«È un poeta, lei».
«Ma no. O chissà… siamo tutti un po’ poeti, in montagna. Andando piano, ci si perde in se stessi, e si scopre la poesia. Sì» aggiunse con un sorriso largo e diffuso, «forse siamo tutti poeti, in montagna».
«Forse ha ragione. E, mi dica, è mai stato, che so, sul Bianco? O in Patagonia?».
Quasi rise sguaiato, nel rispondere. «Oh, no» le disse, «non sono a quei livelli. Vado più che altro qui vicino».
«Ah… no, le chiedevo questo perché sono stata sul Bianco, con una guida alpina. Su una via, sembra, abbastanza famosa. Forse la conosce… Divine Providence… le dice qualcosa, il nome?».
Lui piegò il collo sulla sinistra, e rispose battendo due volte il sopra e sotto degli occhi. «È una via famosa» disse. «È molto difficile…».
«Ah, mi pareva… sì, mi sembrò difficile, in effetti. Più che altro, non facile. Il nome, poi, lo trovai azzeccato» proseguì Maddalena. «Sa perché? A un certo punto il cielo cambiò completamente, minacciò tempesta, di quelle da telegiornale, insomma, quando dicono che ci sono alpinisti dispersi sul Bianco».
Fece una pausa, non piccola. Proseguì.
«La guida a cui ero legata mi urlò due o tre cose sulle manovre, e cambiammo il passo, completamente. Incredibile quanto fummo veloci, da lì in poi. Dei razzi. Sa, un conto è essere lenti sulle cose facili, un altro andare veloci sul difficile. Mi capisce?».
«Sì… sì, dipende dalle circostanze, certo».
«Non solo, non solo. Dipende anche da se stessi. Da come ti sai muovere. Dalla bravura. Vede, se uno è bravo in una cosa, è per sua natura veloce nel farla. Per gli altri, intendo. Lui, in sé e per se stesso, si muove e agisce e pensa normalmente, potremmo dire lentamente, però per gli altri è veloce, un razzo, appunto. E sa cosa suscita, di solito? Lo sa?».
«Mmm… beh, ammirazione, direi».
«No, ammirazione lo dice qui, davanti a me. Ma nella realtà desta invidia, gelosia. Non si sa gustare le cose, si dice. Guarda come cammina, guarda come scala, guarda come legge… chissà come capisce e come si gusta le cose, quello lì. Di sicuro non sa neanche quello che sta facendo, dicono. Conosce un po’ Mozart?».
«Mozart… il musicista? Beh… sì, certo…».
«Sa che a 6 anni aveva già composto un mucchio di roba? Complessa, cose che gli altri avrebbero composto in anni, e non con quella profondità. Lui l’aveva fatto VELOCEoceMENTE. Il suo pensiero correva. Agile. Si destreggiava dove gli altri compositori inciampavano, o si arrestavano. Lui saltava. Come quel matematico, l’indiano Ramadayan. Mai sentito?».
Maddalena detta Mad e un giorno da Rudy chiamata Genius incalzava, e l’altro stava faticando. Come appoggiandosi a un bastone fra ogni volta che doveva rispondere.
«No… no, non mi intendo di…».
«È stato uno dei più grandi matematici di tutti i tempi, sa? Non aveva ancora venti anni e aveva già scritto alcuni dei più grandi teoremi della storia della matematica. Volava sui numeri, letteralmente. Le operazioni più complesse scomposte a mattoni come solo un moderno computer sa fare. Beh, su quella via di
montagna cominciammo ad andare così. Veloci. Anzi, in realtà semplicemente scalavamo al nostro livello, o meglio io al livello della guida, ed era un modo di procedere veloce, lesto. Giusto, per dove eravamo. E poi, lei citava il silenzio… a un certo punto scoppiarono i tuoni, da qualche parte. Letteralmente. Delle bombe. Altro che silenzio della natura. La natura ha il suo spartito, e mica è così silenzioso, sa? Anzi, un tuono in montagna fa molto più rumore che cento tubi di scappamento in città. La natura segue le leggi del caos, nell’ordine e nei suoni, e il caos si fa sentire a volume altissimo. D’altronde, sa, i più grandi musicisti della storia della musica classica sono diventati sordi. La musica va sentita a volume alto, non si deve sussurrare, quello va bene in chiesa, dove non si deve alzare la voce. Se non nei canti, verso Dio, e allora anche lì si alza la voce. E provi ad ascoltare i capolavori del rock, li deve ascoltare a volume alto, per comprenderli nella loro massima potenza espressiva. Ma torniamo a quella volta in montagna» continuò Genius, «sa cosa pensai, quella volta? No, non lo sa… glielo spiego, pensai che nella mediocrità ci si può affidare alla tenacia e alla sofferenza, alla lentezza e all’osservazione fine a se stessa, ma se ci si vuole innalzare verso qualcosa, allora bisogna essere veloci… bisogna essere veloci per rincorrere le nuvole, disse un famoso alpinista, sa? E poi quella guida, che era un fuoriclasse, un alpinista famoso, mi disse che in Patagonia, dove era stato più volte, i venti soffiano sempre a oltre 140 orari, un frastuono che neanche una somma di catapulte amplificate, e la velocità è tutto, bisogna essere svelti nelle minime cose, e così ad alta quota, sopra i 5000 metri, su tutte le vette, si avanza lenti per carenza di ossigeno, ma comunque ci si deve affrettare, perché ogni minuto in più è un’esposizione al pericolo. Mi capisce?».
L’uomo era ormai scomposto, sulla sedia. Tracimava insicurezza. «Sì, un po’» rispose.
«Un po’… certo, capisco. Riesce a capire solo un po’. Si vede che la velocità non è proprio il suo forte. Lei ama vivere lentamente, la vita le appare fin troppo veloce e allora se ne va in montagna, lontano dal logorio della vita moderna, come diceva una pubblicità. Ma cosa va a fare in montagna? Cose così, passeggiate. Piccole escursioni, dove può andare a piacer suo. E il piacer suo è fermo. Non si muove».
«Non vado solo a camminare, noi facciamo le vie» protestò l’uomo. «Vie di montagna, anche lunghe».
«Oh, certo, le SUE vie. Quelle che riesce a fare. Vie così… da corso di montagna, diciamo. Immagini un genio, un fuoriclasse, su quella che lei chiama via. Un sentiero per una corsetta, la chiamerà. Tutto è proporzionale al genio che uno si ritrova, sa? Ma questo, in sé, non è mica un problema. Non è un problema non essere veloci quanto una guida, essere lenti rispetto a lei, e non è un problema fare i conti lentamente, e cose così. Sa qual è, il vero problema? Anzi, ce ne sono due. Sa quali sono? Mi dica».
L’uomo deglutì, poi per la tredicesima volta piegò la testa verso destra, per la ventiquattresima volta contrasse il muscolo facciale sinistro, poi irrigidì il muscolo trapezio della spalla sinistra, assumendo quindi una posizione deforme, un pupazzo scardinato nel progetto di mantenere una posizione eretta e definitiva, in questo disattendendo il grande progetto dell’umanità di camminare a posizione eretta e di sedersi senza afflosciarsi in una molle depressione addominale, delegittimando la volontà della schiena di porsi regale, e quella donna, lì davanti, gli apparve austera e regina, superiore, VELOCE nel pensiero, nei riflessi, in tutto. Tentò una risposta, ma fu lento nel comporla, nell’esaminare le alternative, e infine nel costruirla. Come avere davanti cento pezzi di cose, e costruirci qualcosa, di sapiente, di sensato, e non farcela, mentre davanti un altro, un’altra, riusciva intanto a farci una casa, e poi disfarla e farci una barca, e poi ancora altro, e altro ancora.
«Non si sforzi, glielo dico io».
«Sì… sì».
«Si calmi».
«Sì».
«Il primo problema, il primo per l’uomo e la società tutta, è che arroganza e stupido orgoglio fanno sì che l’invidia travalichi l’ammirazione e il giusto consenso, ed eventualmente l’apprendimento, così che il genio venga criticato, deriso, messo alla sbarra, perché troppo veloce, troppo avanti nel costruire le cose, superiore esploratore della realtà e di quanto è irreale, necessario a tutti nel presente e nel passato, perché tutti hanno bisogno del genio per progredire e avanzare, ma nessuno lo ammette, e lo si mette alla gogna, salvo poi esaltarlo da morto. Il secondo problema è che per questo lavoro l’azienda esige brillante inventiva e capacità di reagire alla dinamica dei problemi e dei progetti, piuttosto complessi, niente di trascendentale ma comunque superiori alla media, e l’inventiva è propria del veloce a pensare, di colui che reagisce di scatto e nel giusto, riflessivo quando serve ma mai lento, reattivo, diciamo. Mi dispiace, può andare».
E lo disse veloce, così rapida che neanche ci fu il tempo di un saluto gentile.
Tanto che passò appena un secondo che Genius alzò al testa, e inflessibile disse: «Ho da fare, può andare, glielo devo ripetere lento?».
Di quello che accadde nei successivi secondi, è perfino superfluo narrare, perché Genius risolse a mente una combinazione di colori e di forme generando un quadro mentale che nessuno avrebbe mai potuto ammirare, mentre l’uomo se ne uscì con maldestra attenzione, un sospiro nell’aprire la porta, e i muscoli gonfi di acido lattico come dopo una via di montagna difficile, una di quelle che non aveva mai voluto attaccare, troppo difficile, aveva sempre pensato, e così concluse più avanti, sarebbe stato un lavoro troppo difficile, si disse, e lo criticò aspramente, quando ne parlò agli amici la domenica dopo. Nel reticolo nascosto dei suoi pensieri sapeva di non raccontare la verità, ma gli amici gli credettero, e succede sempre così, basta non raccontare la verità quando agisci torbidamente.

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