Fabio Palma

Infinite jest

INFINITE JEST

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E’ un libro che cambia la vita, c’è poco da fare. Presuppone una lettura concentrata, continuativa e attenta ( non da mezz’ora al gionro, insomma ). Infinite Jest non è solo un romanzo, è una sfida intellettuale, non solo letteraria. Wallace l’ha destinata, questa sfida, ad una nicchia, un elite, sapeva che sarebbe stato un romanzo per pochi, quei pochi disposti a rubare tempo all’intrattenimento. Se si inizia Infinite Jest e si vuole finirlo con della comprensione, bisogna accantonare le perdite di tempo quotidiane, gli intrattenimenti stupidi. Infinite Jest è l’anti-intrattenimento dei nostri tempi. Più ancora dei romanzi di Pynchon, più di qualsiasi film, si propone come martello contro l’inutilità. Sapendo di perdere, perchè solo una piccola minoranza accetterà la sfida.

Anzitutto, la struttura: essendo anche molto incuriosito e affascinato dalla matematica, Wallace ha secondo me pensato di costruire un romanzo fondato sulle coniche, la parabola, l’ellisse e l’iperbole. Coniche
La parabola, lo sappiamo, è per antonomasia la curva allegorica per eccellenza; tutti i protagonisti del romanzo percorrono la loro, e su questa scelta possiamo dire che la novità non c’è. Wallace va però oltre fin dall’inizio, disegnando un contesto geospaziale nel quale due centri, l’Accademia del tennis e il centro di recupero per tossico e alcol dipendenti, sono due fuochi essenziali del romanzo, che si muove ellitticamente intorno ad essi. La rincorsa all’eccellenza, primo fuoco, la caduta e il tentativo di riaffacciarsi al mondo, il secondo fuoco.
La terza conica è l’iperbole, Hal e Don gately non si incontrano mai, pur arrivando quasi a contatto nel percorso dell’ellisse.
La maggior parte dei protagonisti è “paraliticamente sveglio”, anche quando sono impegnati nelle loro discipline, sportive o sociali, ondeggiano attorno a posizioni di stallo, derivano soltanto verso buchi negativi, non esistono riscatti esenti da compromessi che uccidono il riscatto. Don Gately sarà l’eccezione? Non lo sappiamo, alla fine…
Anche Hal, il superdotato per eccellenza, la cui fine è scritta nel primo capitolo, non arriva mai al nocciolo delle cose, non ci prova neppure

Come la maggior parte dei nordamericani della sua generazione, Hal tende a sapere molto meno sul perché sente certe cose riguardo agli oggetti e agli scopi cui si dedica, rispetto agli oggetti e gli scopi in sé. Difficile dire con certezza se sia poi eccezionalmente negativa, questa tendenza.

Suo fratello, vip sportivo per caso, odia la ragione del suo successo

<> strilla Orin a chiunque gli fluttui accanto. Non fa i cerchi della morte o gli avvitamenti come gli esibizionisti; il suo è un lento bordeggiare, una specie di versione planata dello spazzaneve che esegue del tutto in modo non spettacolare, cercando solo di uscirne illeso il prima possibile. Il nylon delle sue ali rosse finte sbatte per via di una corrente ascensionale; penne male incollate continuano a staccarsi e a salire in alto. La corrente ascensionale è creata dall’ossido di carbonio che viene dalle migliaia di bocche aperte del Mile-High, di gran lunga lo stadio più rumoroso che si sia mai visto. Si sente un coglione. Il becco gli rende difficile sia respirare che vedere. Due riserve fanno una specie di vite orizzontale. Il momento peggiore è quello in cui stanno per saltare dal punto più alto dello stadio. Le mani di quelli delle file più in alto che si protendono e cercano di afferrarli. La gente che ride. Le telecamere dell’Interlace che fanno panoramiche e zoomate; Orin la conosce fin troppo bene quella lucina sul lato che significa zoom. Quando sono molto in alto sopra il campo le voci si fondono e confondono nell’ossido di carbonio della corrente ascensionale.

Ma se gli esseri umani si muovono secondo coniche, sono sezioni di cosa? Le coniche sono sezioni di un cono, qual è il cono sul quale sono sezionate le loro esistenze?
La mia ipotesi è che la società sia il cono ( imbuto) sul quale Wallace disegna le esistenze dei singoli, e dello stesso romanzo. La dipendenza è cià di cui la società-cono-imbuto si è riempita, perchè TUTTI i protagonisti sono ossessionati e quindi dipendenti da qualcosa, in un mondo che per giunta cerca nell’intrattenimento fine a se stesso l’obiettivo ultimo, quello della dipendenza senza pensare.
La dipendenza è quindi il tema centrale, tutto ne è permeato, ma è soprattutto il come l’uomo si è arreso alla lotta per capire ciò che lo circonda su cui Wallace insiste, con alcune pagine memorabili come questa:

Marlon Brando fu l’archetipo del nuovo attore e, a quanto pare, rovinò il rapporto di due intere generazioni di ragazzi e ragazze con i loro corpi e con gli oggetti quotidiani e i corpi degli altri. No? Be’, è per via di Brando che stavi aprendo la saracinesca del garage in quel modo, Jimmy. La mancanza di rispetto viene imparata e trasmessa.Tramandata. Conoscerai Brando quando lo vedrai, e a quel punto avrai imparato a temerlo.
Brando,Jim,Gesù santo, B-r-a-n-d-o. Brando, il nuovo archetipo del ribelle, duro e zoticone, che si dondola sulle gambe della sedia, si affaccia alle porte, si sdraia su tutto quello che trova, vuole dominare gli oggetti senza mostrare alcun dovuto rispetto o cura, strattona le cose come un bambino intrattabile, e le consuma e le getta da una parte senza centrare il cestino e loro rimangono in terra, maltrattate. Con i movimenti e le posture impetuose e maldestre di un moccioso intrattabile. Tua madre appartiene a quella nuova generazione che va contro il verso della vita, contropelo. Può anche aver amato Marlon Brando, Jim, ma non l’ha capito, ecco quel che l’ha rovinata per le piccole cose della vita di tutti i giorni, come i forni e le saracinesche dei garage e perfino un po’ di tennis da strapazzo nei parchi pubblici. L’hai mai vista tua madre con lo sportello di un forno? Una carneficina, Jim,roba da rabbrividire per la paura solo a vederla, e la povera scema pensa che sia un tributo a questo zoticone stravaccato di cui s’innamorò quando le passava accanto rombando. Jim, lei non ha mai intuito l’economia gentile e astuta che stava dietro l’approccio agli oggetti virgolette crudo, trasandato e naturale di quest’uomo. Il modo in cui, oh quant’era evidente, provava e riprovava un’inclinazione all’indietro sulla sedia. Il modo in cui studiava gli oggetti con occhio da saldatore, in cerca di quelle giunture centrali più robuste che reggono anche quando sono messe alla prova dal più animalesco degli stravaccamenti. Mai… lei non ha mai capito che l’autopercezione che Marlon Brando aveva del suo corpo era talmente acuta da non fargli avere bisogno delle buone maniere. Lei ancora non capisce che con quel suo modo virgolette noncurante lui stava in realtà toccando le cose come se fossero parte di sé. Del suo stesso corpo. Quel mondo che sembrava solo strapazzare era per lui senziente. E nessuno… e lei non l’ha mai capito.Altro che uva acerba. Non si può invidiare qualcuno che sa essere così. Rispettarlo, forse. Magari di rispetto voglioso,a dirla proprio tutta. Non si è mai resa conto che Brando, in ogni occasione, su ogni palcoscenico,da una costa all’altra, stava mettendo in atto l’equivalente di giocare un tennis di alta qualità, Jim, è questo che stava facendo. Jim, lui si muoveva con la grazia di un pesciolino noncurante, come se fosse un solo,grande muscolo, ingenuo come tutte le creature muscolari ma sempre, bada bene, un pesciolino al centro di una corrente chiara di fiume. Quel tipo di grazia animale. Il bastardo non sprecava neppure un movimento,ecco che cosa rendeva arte questa sua brutale assenza di cura. Il suo era il dictum di un giocatore di tennis:tocca le cose con considerazione e quelle saranno tue; le possederai; si muoveranno o resteranno ferme o si muoveranno per te; si distenderanno e apriranno le gambe e ti cederanno le loro più intime giunture. Ti insegneranno tutti i loro trucchi. Lui sapeva quello che sanno i Beat e quello che sa il grande giocatore di tennis, figliolo: impara a fare niente, con tutta la tua testa e il tuo corpo, e ogni cosa sarà fatta da ciò che ti circonda. So che non capisci. Per adesso. Conosco quegli occhi stralunati. So fin troppo bene quello che significano, figliolo. Non ha importanza. Capirai. Jim, io so quel che so.

Che dire? capolavoro moderno forse irraggiungibile per complessità, significati, riflessioni, descrizioni di dipendenze, devianze, trasformazioni. Il perdente, Don Gately, è forse il vero vincitore? Rimarrete folgorati dagli infiniti vasi sanguigni di un libro che esige una lettura continua e il meno possibile interrotta. Altrimenti, lo abbandonerete esausti già a pag. 100. Perdendo molto di quello che può dare la letteratura.
Alcuni misteri ( chi ha diffuso la cartuccia? Aaron Swartz, l’altro genio suicida, fa un’ipotesi, suffragata da precise osservazioni, che sia stato ORIN, il figlio “stupido” di JOI, che è il vero big bang del romanzo e che mi azzardo a dire sia, per Wallace, il Gesù Cristo laico, che muore lasciando le cartucce a disintegrare il mondo ( vogliono intrattenersi? Che lo facciano). Con un Sacro Graal, la cartuccia anti-intrattenimento ( pag. 150), che potrà rinvenire soltanto chi prima ha toccato il fondo ( sarà quindi Don Gately?)

E la scrittura vera e propria? Le pagine indimenticabili, a prescindere dalla struttura e dai significati? Segnalo queste

Dell’edizione Einaudi,
729-738 descrizione di una rissa,
666 i rumori di una notte
688-706
570-587
186-202 Dal padre al figlio
Sono praticamente già dei libri nel libro, da soli questi estratti sono inestimabili.

Può Infinite Jest essere il manifesto anti-intrattenimento stupido? L’arma letale dei vari GF, amici, etc etc?
Assolutamente no. E’ un romanzo sfigato, come tutte le cose complesse e intelligenti. Quanti lo hanno letto, nel mondo? Qualche centinaia di migliaia. Un’inezia. Non c’è tempo per leggere o per dedicarsi alla riflessione. Una minoranza di cui faccio parte grazie ad un infortunio (una settimana in cui non ero in grado di muovermi, questo mi permise di leggere Infinite Jest tutto d’un fiato, lasciando poi a parziali riletture gli approfondimenti), una minoranza che non è neppure capace di diffonderne il messaggio e di recapitarne la potenza. Anche questa recensione, vedete, non è una recensione. Soltanto una raccolta mal fatta di riflessioni. Questo Wallace lo sapeva, non poteva non saperlo. Lo scrittore oggi non può più influenzare il mondo, il pensiero, la società, come invece riescono a fare le cartucce dell’intrattenimento. Soltanto una minoranza può avere la consapevolezza dell’anti-intrattenimento. La cartuccia anti-intrattenimento è quindi il romanzo stesso? Wallace aveva questa presunzione?
Sì, a mio parere. Con la consapevolezza, a sua volta, di essere uno sfigato che aveva partorito un libro sfigato per una minoranza sfigata. Della quale sono felice di far parte, grazie ad un infortunio. Augurarvi una settimana di immobilità per dedicarsi a questo monumento? No, non me lo sento. Ma è IL LIBRO da tenere in casa, in bella vista. Prima o poi l’occasione potrebbe arrivare, e certamente non ve ne pentirete. Infinite Jest è tutto tranne che un mattone, la lettura non è indigesta, esige soltanto continuità. Esattamente il contrario di ciò che è esatto da tutto ciò che ci propinano i luoghi di intrattenimento

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