Fabio Palma

Infinite jest

D’Andolfo

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La storia è praticamente vera, accadde nella mia quinta elementare. Un saluto a Michele D’Andolfo, dovesse mai leggere questo racconto

D’Andolfo aveva i capelli lunghi e biondi, e allora come oggi era sinonimo di spostato. Li hanno tollerati solo a Gesù, i capelli così, ma D’Andolfo parlava biascicato, aveva 4 in tutte le materie, e nella sola che andava come un Dio, la ginnastica, aveva fatto incazzare il Professore, tal Zambiasi si chiamava, che l’aveva esentato da lezione per un mese intero.

D’Andolfo ti discuteva tratteggiato sulle cose, due parole le capivi, quella in mezzo mai. Si giocava a pallone, e in mezzo al campo si componevano le squadre, a pari e dispari chi vinceva sceglieva il primo, e poi giù giù in cascata fino al fondo del barile, dove gli scarti ascoltavano da lontano le scelte nobili. Io ero spesso quello che puntava al pari e dispari, così evitavo il supplizio di aspettare. Se vincevi, il dubbio era fra tre, l’unico portiere buono, Poldino, grasso ma largo il giusto per tenere botta alle sparate da lontano, oppure Enrico, il primo in tutto e perciò anche col pallone, oppure lui, D’Andolfo, che quando prendeva palla non si capiva mai dove finisse la scia bionda della coda.

Era arrivato da noi quell’anno lì, la quinta elementare, e da subito neppure Geremia gli avrebbe pronosticato l’anno superiore. Così, nel consueto pic nic di fine anno, alla consegna di pagelle con festa nel giardinone della scuola e campestre nei prati e perfino colline che allora ancora disegnavano il profilo di Caronno, per D’Andolfo sarebbe stato un inutile supplizio la presenza, e infatti al fischio di partenza della corsa, affollata da genitori, elementari, medie e amici, lui non c’era.

Partimmo a mezzogiorno esatto in 136, me lo ricordo bene. Un casino, la partenza, è nella partenza, che si vede quanto sia bastardo l’uomo, dico io. C’erano adulti che spingevano bambini, bambini che spintonavano i ragazzi, e solo dai nove anni in giù si aveva ancora l’idea di partenza onesta, cioè da dove ti trovi fai un passo avanti senza possibilmente fare del male al prossimo. In sostanza, presi un pugno, e rotolai nel fango, perchè ogni campestre seria ha del fango alla partenza e quel giorno, tutti gli anni, Giove Pluvio si dannava bene la sera prima. Ricordi vaghi, ma forse ruppi il labbro, non so. Lo Zambiasi si era appena avvicinato quando alla linea del nastro comparve lui, il biondo. Con scarpe di vernice nera, lucida, e un cappotto verde in loden. Che, con la faccia che aveva il D’Andolfo, segnata da rughe adulte su una pelle bianchissima da bambino un po’ emaciato, faceva un tutto che mozzò in gola il commento di Zambiasi. Che voleva dire “non si può”, si vedeva che avrebbe detto quello, almeno le scarpe, cazzo, c’erano tutti, quel giorno, che figura avrebbe fatto, lo Zambiasi, con un alunno a correre così? Però D’Andolfo era già più in là, quando Zambiasi urlò qualcosa, e per emulazione, non so, un fremito, partii anch’io, anche se zoppicante, e tanto meno veloce del biondo, che dopo un amen era già alla curva dopo.

Quaranta minuti dopo io arrivai quinti, mai più andato così veloce, io, nella vita, mai stato meno di ottavo, a contare anche i posti sul lavoro. D’Andolfo, giuro, vinse, e lo so che penserete che questo sia un racconto con finale buono sdolcinato da storiella a fiaba, ma vi giuro che davvero vinse che Zambiasi fece pure un bel discorso, e che mio papà l invitò al tavolino del pic nic.

Una storia a lieto fine?

Non so, ora io ho 31 anni e D’Andolfo non l’ho più visto, mai più, in quel bordello che per eleganza chiamiamo vita. Ricordo i calzini bianchi sotto le scarpe di vernice, il loden verde, e lui che tirava su il naso, capimmo tutti, al microfono, che la sera prima aveva la febbre, e che aveva freddo, quel giorno lì, no, non aveva capito che c’erano le pagelle, a lui la scuola non piaceva, cioè sì ma non la capiva, a lui piaceva correre ma a casa non c’era spazio e a ginnastica c’era sempre un pallone da portare avanti, e gente da saltare, lui voleva correre liberamente, senza dribbling, fu una sommossa, in tutti dico, quello che disse a tratti fu proprio una sommossa, c’era pure mia madre che piangeva, un po’ rossa, commossa, poi la vita è andata avanti per i casi suoi ma ogni tanto me ne esco prima dal lavoro e mi faccio una bella corsa, e non me ne importa niente se la gente mi guarda storto per la cravatta che vola al vento e le scarpe senza la gomma sotto.

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