«Prendili tutti».
«Ma come li portiamo a casa?».
«Non li portiamo, li mettiamo in una buca».
«E se li trovano?». Il fratellino piegò verso il basso l’angolo acuto degli occhi. È capace di piangere in un attimo, pensò.
«Stai tranquillo, la copriamo ben bene. E poi qua non ci viene nessuno fino a giugno».
L’altro si tranquillizzò.
La spiaggia era disseminata di sassi il cui colore spiegava tutte le tonalità di rosso del creato. Striature, forme, punti e tracce. Una tavolozza senza fine. Drazen non capiva e non sapeva perché lo stesse facendo, ma andava avanti, come un salmone non conosce la verità che lo sospinge ma per intima pulsione insegue il destino senza troppe domande.
Lavorarono per mesi. Per lui era un lavoro, davvero, per il fratellino un gioco. Anche se gli faceva male la schiena. Avevano trovato una buca perfetta, al di là della fine della spiaggia di sassi. Forse un tempo un ruscello era morto così, in un ultimo affanno, sotterrando le ultime velleità, e cercando il mare più sotto, dove non si era dato a vedere. O forse la buca l’aveva costruita lui stesso, Drazen, a forza di quel sogno ricorrente. Sassi, sassi, coi loro disegni. Sassi su sassi. E quel sogno in cui Dio gli parlava attraverso infiniti disegni. Gli spiegava il perché del fratellino col braccino monco, come mai il padre era così cupo ogni sera, il padre che tornava tardi e spesso tormentava la mamma – si rifiutava di dire picchiare – . I sassi mi diranno tutto.
Drazen aveva 13 anni quando Patrick divenne il suo primo e più grande amico. Non si capivano, non si capirono mai, davvero. Altre lingue, lui veniva da lontano, la prima volta proprio a giugno, e la gelosia di un segreto, che è la molla di ogni odio, quando scoprì la buca Drazen ebbe l’impulso di ucciderlo. Lo aveva trovato lì, silenzioso, davanti all’enorme ammasso di sassi, illuminati da un’alba violacea.
Poi si erano scambiati le cose, incubi e sogni, pensieri e illuminazioni. Non c’era molto da fare, nell’isola, a giugno, prima che arrivassero i barconi dei turisti, e quelli invadevano il porticciolo soltanto da metà luglio in poi, quando l’isola cominciava a scoppiare dal caldo, forse portato anche dal sudore di tutta quella gente.
In qualche modo, crebbero insieme. Patrick con la sua scuola di computer, che Drazen neppure sapeva cosa fossero, e Drazen perfezionando il suo sogno ossessivo, che piano piano si trasformò in una complessa teoria. L’idea che nella natura ogni disegno volesse dire qualcosa, ma che tutto fosse immutabile tranne quello plasmato nella pietra.
Avevano 18 anni ed erano molto diversi quando Patrick si presentò una mattina di giugno con un oggetto nero e pieno di bottoni e rotelle. «È una macchina fotografica con una camera oscura incorporata» disse. «Metti dentro l’oggetto, e lei lo fotografa da più angolazioni».
Impiegò un’ora a spiegare all’amico il concetto, e altrettanto per dirgli che con quella e un computer si poteva fare qualcosa per dipanare i suoi dubbi.
«Quali dubbi?» domandò Drazen.
«Su chi guida nel mondo» rispose sorridendo Patrick.
Fotografarono tutti i sassi, ma proprio tutti. Ci misero quasi una settimana. Avevano tempo, d’altronde. Ancora a giugno in quell’isola non c’era nulla da fare se non guardare il mare, scottarsi al sole, e aspettare che la sera facesse quello che doveva fare, abbassare le luci e il termostato di quel piccolo torrido mondo dimenticato.
«E adesso, puoi farlo anche qui?».
«Certo» disse Patrick, allegro. «Sono qui per questo, no?».
Diede in pasto al computer migliaia e migliaia di foto, poi diede il via a un programma che cominciò a sezionarle, analizzarle, sviscerarle. Ogni foto tranciata, ruotata, e poi regredita alle sue fondamenta.
«E adesso?» chiese Drazen, impaziente.
«Ehi, hai aspettato anni, puoi attendere ancora un po’, no? Adesso con questo programma si cercano le correlazioni».
«E che cosa sono?».
«Somiglianze».
«Ma sono tutte forme diverse. Anche nei colori».
«Questo è quello che vediamo noi. Che ci vogliono far vedere. Ma vedi queste forme? Sono delle curve. Non curve semplici. Sono risultati di studi di funzione. Questo programma è capace di trovare le funzioni da cui provengono, e poi di confrontarle. Così da scoprirne similitudini, comunanze».
Decisamente, l’amico era cambiato, in quegli anni. Soprattutto dall’anno prima.
«Non ho capito molto, sai?».
«Non ti preoccupare, è normale. Sono cose tecniche. Difficili, ma stupide. Sei tu che hai avuto l’intuizione giusta».
«Intuizione?».
«Sì. Ora aspettiamo. È l’ultimo modello, ma ci vorranno giorni. La memoria dinamica è satura».
«Memoria dinamica?».
«Sì, non ti preoccupare. Tu sogna, sogna».
Due settimane dopo Drazen aveva davanti delle stampe. Patrick aveva perfino portato una stampante a colori, dietro al sogno dell’amico. Chissà perché l’aveva fatto, poi. Capita che si abbia una pulsione nel cuore, no? Una forza. Una cosa da salmoni, diciamo.
Fatto sta che Drazen aveva davanti ora disegni di foglie, scheletri, arti, particolari anatomici. L’unghia di un rapace e quella di una tigre, il becco di un picchio e la trama sottile del calco di un ago di pino. Decine e decine di forme naturali note e decisive. Le cose che avevano portato avanti le cose.
Patrick raggelò, alle prime stampe. Erano quasi mille, quando la stampante cessò di avere i colori. «È finito il toner» disse all’amico. Drazen non domandò neppure cosa fosse. Davanti, aveva altri sogni da fare.
«E adesso?».
«Ci devo pensare un po’ su» gli rispose.
«Già. C’è da pensare parecchio, mi sa».
«Tu cosa ne pensi?».
«Non credo ci sia da pensare. Comunque, non da parte mia».
Quell’estate i barconi furono più del dovuto e del solito. Ormai l’isola era diventata una meta famosa e diffusa. Un anno dopo, avviarono la costruzione di un villaggio turistico, squadrato e neppure così brutto alla vista. Riempirono la buca con del cemento, comparvero giardinetti curati e dal verde soffuso, e la prima cosa che Drazen notò, a costruzione conclusa, fu che ogni tipo di rosso, dal porpora al diafano arancione, era stato annullato.
Poi la vita se ne va dove deve andare, indipendentemente da quello che la gente si dice. Fu Patrick, un giorno, a denunciare la scomparsa del vecchio amico. Erano trascorsi degli anni, sempre più vuoti, anche di loro due. La lontananza si era allargata come un compasso a cui qualcuno aveva comandato la rotellina centrale.
Ma un compasso ha sempre un centro, in fondo. Forse per questo Patrick trovò il tempo di avere dei dubbi, quando l’amico non rispose più, un mese di giugno. In un singulto nostalgico, gli aveva telefonato dalle Antille Olandesi, vacanza dorata come un pane appena sfornato. «Non c’è, se ne è andato» gli risposero.
Drazen gli aveva detto, l’anno delle foto: «Ma sarà solo una cosa di qui, o tutti i sassi del mondo hanno dentro queste cose?».
Non aveva saputo rispondergli. E l’amico slavo aveva aggiunto, serio: «Sai, di notte, i miei sogni, non sono poi così belli. È come essere in un sudario. Dormo male. Certe volte molto male».
Soltanto adesso Patrick si fece la domanda se fossero convulsioni, quel dormire male del vecchio amico.
Ma un compasso ha sempre un centro, in fondo.
Settembre 3, 2025 | 0 commenti