«Veramente, ci sarebbe quel Pinna…».
Silenzio.
Forse il primo istante, di silenzio. Perché si urlava da ore, se lo ricorda bene, chi c’era. Avevano iniziato presto paventando una cosa lunga, ma era oramai notte fonda, e di vie d’uscita, niente. La notte, poi, lì, non era proprio una di quelle notti a cui si è abituati. Il nero era nero davvero, quando mancava la luna ed era un po’ nuvolo. Cosa che era normale, d’inverno.
Intanto nel paese era un dramma, di quelli veri, da telegiornale, anche se da quelle parti la tv non prendeva, e invero non prendeva nulla di nulla. Come essere in castigo nel mondo.
Erano isolati da tre giorni, e quello poi si accettava, si era isolati per natura e tradizione, a Pepato. Lo diceva la storia, meglio, la leggenda, visto che il mitico Pepato, fondatore, pare nel ‘300, del villaggio, altro non era che un fuori uscito, in tutti i sensi.
Non erano bastati secoli, a farci diventare uguali agli altri, e morire se lo si auspica, di uniformarci. Eravamo orgogliosi, o testardi, diciamo anche presuntuosi, insomma felici di essere a modo nostro, veramente diversi non so, eravamo una comunità, questo sì. Cattiva, anche. Perché gli stranieri non ci piacevano, eravamo razzisti nell’anima, anche verso i turisti che ci guardavano dall’alto in basso, e poi se ne andavano via contenti dell’olio, del formaggio, che poi glielo vendevamo sempre del peggiore, si capisce.
Solo che senza strada, franata il venerdì, si era davvero fuori, in tutti i sensi. E la frana si era portata via anche l’acqua, e al lunedì era scoppiato tutto, una bomba, tutti contro tutti, la frana aveva trascinato quella minima patina di gentilezza che avevamo pennellato a fatica, così che ci si odiava, per niente e tutto, mancava l’acqua e allora rancori e dispetti non erano più dilavati via, tremila anime che si accusavano di tutto.
E poi c’era la questione territorio, si capisce. Nel senso che Pepato era un ecosistema delicato, mille anni prima, intendo, e noi l’avevamo inteso come nostro, senza rispetto. Case grosse nel piccolo, palizzate e terrapieni sradicando alberi e pendii, e le macchine, almeno dieci, dieci, capite? Nostre. Ma molte di più quelle che venivano da fuori, che per Pepato era come un’invasione, barbara, per di più. Le macchine avevano, giorno dopo giorno, divorato la terra che Pepato aveva incontrato come grazia ricevuta quel tempo infinito addietro, e l’avevano fatto con stile. Perché non ci si accorge, di quello che fagocitano quotidianamente. Ti cambiano le pendenze, le curve, gli argini, tutto, impercettibilmente, come una mola che ti gratti via uno spigolo in cento settimane invece che con un taglio e via. E il risultato era che la terra, alla fine, si era ribellata con un amen, la grande frana.
Pinna.
«Il pastore?!?».
«È l’unico che lo conosce, il nostro territorio».
Era una frase carogna, quella, l’unico forestiero accettato perché non s’era potuto farlo fuori legalmente proposto come soluzione al dramma. Era troppo, ma il granellino di dubbio si era insinuato subito, fastidioso. A notte fonda, dicono che i sogni portino folate di realtà, e lì eravamo svegli, assonnati ma svegli, così che si capì il senso al volo, del Pinna.
Pinna era arrivato a Pepato due anni prima, e in un lampo aveva capito come fare il formaggio, coltivare le vigne, vezzeggiare gli uliveti, cose che non sapevamo fare più. Cose che ci frenarono nel mandarlo via, così che lo si detestava, ma faceva comodo, quel pastore lì. Che scompariva per giornate, e tornava sempre, e realmente non si allontanava mai, solo che lui sapeva veramente tutto, di Pepato, dove arrivava e dove si librava, noi invece, senza macchine o al massimo due passi in piazza, si era diventati schiavi del contorno comunale. Si diceva che Pinna si era impossessato della stazione, la casa colonica, quella dietro la montagna, per questo aveva acqua per fare quello che faceva.
La mattina, presto, rintracciarono Pinna, e lo portarono in assemblea. Cioè in piazza, tra la fontana e l’osteria.
«Pinna, ci serve una strada, un tracciato, un modo per far passare un furgone, una cisterna, per uscire dalla valle».
Silenzio.
«Il perito dice che non si può fare, che le pareti sono troppo ripide».
Silenzio.
«L’ingegnere calcola da venerdì, ma chissà che cosa».
«Dice che il terreno non va bene, dice».
«L’architetto propone l’elicottero, ma a noi serve una strada».
Silenzio.
«Piccola, sterrata, anche, ma una strada».
Pinna alzò appena un sopraciglio, l’altro non si degnò di farlo, c’era da pensare poco, alla risposta. Che venne fuori secca, senza frange.
«Vera?».
«Come vera?».
«Non come quella di prima».
«Cosa c’era che non andava, nella strada di prima?».
«Era sbagliata».
«Sbagliata?».
«Illogica».
Illogica proprio non se l’aspettavano, come parola, dal Pinna. Perfino quel diavolo dell’oste lo diede a vedere.
«Spiegati» disse l’oste, asciutto.
«Non c’era una curva giusta, e aveva tagliato la montagna, per questo è venuta giù».
Per essere un pastore, parlava mica male, il Pinna. Si mormorava leggesse molto, nelle sue giornate al sole o all’umido, che fosse l’unico lettore dei libri dell’osteria, quelli sopra le mensole. Pare che solo lui e l’oste li leggessero. Sembrava vero, da quel piglio lì…
«Va bene, Pinna, può darsi. Senti, non siamo qui a processare una strada che non c’è più. Cosa consigli?».
Silenzio. Il Pinna ruotò la testa come seguendo un’orbita.
«Dove mandare la ruspa?» chiese uno. L’oste lo fulminò con lo sguardo. Ma intervenne un altro: «Per aprirci un varco» disse quello.
«Fate seguire il mulo».
Silenzio.
Più che altro, non s’era capito bene, si pensò.
«Come dici, Pinna?».
«Il mulo, fate seguire il mulo dalla ruspa, e dagli operai. In due giorni, avrete la strada, l’unica, ma per sempre».
«Cosa c’entra il mulo?».
«Il mulo non sbaglia mai, va lento, ma senza fatica, e passa dove è sicuro, e non smotta mai. Calcola, a modo suo, ma calcola, fiuta il territorio, lo odora, e lo accarezza. E lo ascolta, anche. Se c’è un vuoto sotto, lo evita, se la pendenza è inversa, ci gira in basso. Sono cose che sapevate anche voi, una volta».
Così seguimmo davvero il mulo, e Pepato fu liberata. Nel senso che fuggirono tutti, l’anno dopo. Era troppo, farci insegnare da un mulo, e rimproverare da un pastore, forestiero. E la strada è venuta fuori così. Se non hai un macchina che sale come un mulo, non ci entri, in Pepato.
Pepato ora non c’è più, case abbandonate, niente macchine, e alberi che crescono. Dicono sia tornato il lupo, l’orso, che il territorio si sia riappropriato di se stesso. Noi abbiamo perso il nostro, cioè l’anima, perché quando si deve seguire un mulo per scappare da se stessi vuol dire che anche l’anima se n’è andata via. O magari è rimasta, ma spiumata. Lo si capisce quando la gente ti legge e non gliene frega niente di vuoto e dolore, ma solo delle apparenze. Muore la coerenza quando vedi solo il fine.
DATECI UNA STRADA
Settembre 1, 2025 | 0 commenti