«Sì, uno scambio».
Menestrel chiuse il libro di fisica e ci ragionò su. Non era proprio un libro di fisica, voluminoso e altisonante. Era un libro pieno di immagini, con qualche disegno scherzoso, e pochissime formule. Menestrel aveva nove anni, e un modo tutto suo di andare dietro ai pensieri.
Aveva appena capito che la luce trasportava energia, che era ora palline ora movimento impalpabile, e che tutto, in fondo, andava avanti per scambi energetici. Forse non era proprio così, però Menestrel se lo disse in quel modo, quando ripose il libro. Lo ripeté ad alta voce, come interrogato. Poi afferrò il libro vicino, e ne sfogliò le prime pagine. Parlava di medicina, quello.
Menestrel abitava e viveva a Dreux, non lontanissimo da Parigi. Una cittadina dalle case eleganti e ordinate, con vialetti puliti e intarsiati, strade strette che intercettavano a sorpresa piccole piazze, e un’aria vagamente antica che le dava un contegno storico dal sapore toscano.
Quello che mancava, veramente, era la gente. Di giorno, chiusa in due grandi fabbriche poco più in là, la sera stancamente in attesa che arrivasse la notte. Mancava, appunto, il gioco, fosse di adulti o di bambini. Mancavano le forze per andare oltre una normale routine.
Cosa facessero gli altri bambini è poco importante, per noi. Certamente erano silenziosi, perché le strade di Dreux erano mute come ali interne di una grande basilica.
Cos’è la vita, se non un susseguirsi di eventi improbabili? Di per sé ovvi e naturali, ma succedanei secondo il destino di ognuno, e quindi disposti come gettati a casaccio da un braccio occupato a mestieri di ben altri valori?
Erano le sei di pomeriggio quando, lievemente annoiato, Menestrel ripose anche il libro dei medici, dal quale aveva assorbito qualche nozione ortopedica. Dopo, si mise a giocare. Da solo, ovviamente, perché la madre era di là, a cucinare, il padre non ancora tornato, e gli altri bambini chissà.
Prese una pallina di polistirolo e cominciò a lanciarla contro il muro. Rimbalzava, la colpiva di testa o di piede, e mirava a una porta immaginaria. Era un gioco che non piaceva alla mamma, visto le macchie sul muro, ma non aveva altro da fare.
Fu il sesto rimbalzo che gli cambiò la visione del mondo. Il polistirolo, forse ammaccato, rimbalzò con una traiettoria imprevista, Menestrel si piegò verso destra per un tiro difficile, e udì il ginocchio ruotare, o forse abbassarsi, o magari girarsi, oppure chissà. Si accasciò sul tappetino della camera, e trattenne a stento un urlo scomposto. Giusto per un pelo, perché la mamma non sentisse e lo sgridasse per tutta la sera.
Menestrel scrutò il ginocchio, già gonfio, paventando un futuro difficile, una sera brutta e cattiva, il padre che tornava dalla fabbrica e non aveva mai voglia di stare con lui, la mamma con le lacrime agli occhi, come spesso capitava quando qualcosa deragliava dal lentissimo avanzare del tempo. Menestrel si guardò il ginocchio, se lo guardò, pensando al dolore che saliva forte, come un geyser, aveva letto dei geyser, uscivano dalla terra così forti e potenti, che bello sarebbe stato un giorno vederli, da vicino, lontano da quel paese tutto ordinato e senza eruzioni; si guardò il ginocchio, il dolore era così forte da troncare il respiro, non vedeva neppure le cose, la sua stanza, così diversa, vista così, chissà come avanza il dolore, si disse, palline di energia? Forse onde, onde di energia, sì, era una marea dolorosa, quella, una volta, solo una volta lo avevano portato al mare, una distesa d’acqua così grande che non aveva neanche osato toccare, con una nebbia impalpabile che aveva spostato l’orizzonte fuori da ogni sguardo ribelle, si mise a pensare, a pensare così forte che sentì l’energia del pensiero defluire, un’onda anche quella, le mani entrambe intrecciate su quel ginocchio, come in preghiera, il pensiero era andato verso le dita forse in piccole palline, in quello striminzito ma infinito circuito che è il percorso del sangue, e da lì chissà, Menestrel non l’avrebbe mai saputo spiegare, neanche molti anni dopo, quasi sette, quando già aveva guarito così tanti malanni che la gente aveva cominciato a mormorare e a parlarne, qualcuno anche in maniera sospetta, in fondo è una fortuna che certe cose accadano adesso, un tempo chissà, forse l’avrebbero bruciato, questo bambino, ma in fondo bruciano anche adesso, ora scottano, ti marchiano, in fondo è la stessa cosa, Menestrel si alzò una sera di novembre col ginocchio senza un dolore, attendendo con noia la solita cena, una zuppa e poi a letto, solitamente senza un pensiero, e invece quella sera la mente sfavillante di domande e risposte, ora sapeva cosa fare, della vita e di ogni sua diramazione, del tempo libero e di quello occupato, quando la mamma spense la luce alzò le mani e le vide brillare, lì, nella stanza buia del secondo piano di una delle tante case uguali di Dreux. Il paese dove niente era una domanda e dove nessuno se ne fece troppe quando, anni dopo, Menestrel se ne andò. Niente di diverso, rispetto e riconoscenza non sono mai stati valori comuni, usa chi ti serve e dimenticalo quando vuoi, è una legge quasi universale. Quello che accadde, però, fu registrato pochi mesi dopo, in un ospedale di Parigi, dove specialisti e professori cominciarono ad accogliere troppa gente da quella Dreux, da quella periferia. Tutti afflitti nella testa e sottopelle, come se mancasse del tessuto, o della linfa. Tutti doloranti, ricordi brucianti di un incontro che avevano usato e non capito.
Cos’è la vita, se non un susseguirsi di eventi improbabili?
Settembre 5, 2025 | 0 commenti
