Perché è cianfrusaglia, quell’idea dell’età. Così avrebbe spiegato poi Buckethead, in una conferenza stampa, ma solo mesi dopo, soltanto molti mesi dopo.
“Yngwie ? ”
La ex star scrollò gli occhi, sprofondò nel divano, e se ne uscì con una parolaccia.
Era domenica, se lo ricordano tutti perché erano le sette di mattina e nessuno aveva avuto il permesso di dormire. Buckethead aveva trascorso la notte ascoltando 54 chitarristi diversi, serviva un guitar player per il suo primo gruppo da solista, e aveva ancora tre ore per trovarlo. Perché la casa discografica non poteva più aspettare, e se Buckethead falliva quel contratto “se ne sarebbe tornato a fare il macellaio”.
Erano anni difficili, per il rock. Ok, c’era stato The Wall, ma c’erano anche i Dire Straits, ed erano un timbro, il rock è morto, sono solo canzonette. Led Zeppelin, Deep Purple, Doors, Clapton…tutti scomparsi, o riciclati a fare altro, anche di qualità, ma altro. E poi erano arrivati quei due, Young e Van Halen, e non bastava più fare buoni pezzi, ora serviva avere un grande guitar player, sennò finivi dietro i trenta, o peggio in discoteca, all’ora che si sfollava, quando Donna Summer aveva già esaurito qualsiasi timpano.
Così, quella mattina, il manager tirò fuori la scheda, disse al ragazzino “ci provo”, e andò da Buckethead.
Yngwie veniva dalla Svezia e si ritrovava con quel nome lì, ed erano due cose che combinavano con Los Angeles come un oggetto d’arte in un bagno pubblico. Perché c’era arte, in quel ragazzino, ma Los Angeles era già allora alla deriva, stritolava l’arte con le luci al neon e slang ispano americano, la musica scopiazzava le liti e la boxe delle cantine di periferia, dove emergeva solo chi odiava l’anima, l’arte, e forse anche se stesso e Dio. Anni dopo, il rock sarebbe ripartito proprio da lì, e da New York, ma allora, nel 1980, c’era solo un fastidioso alito di antico.
Buckethead era nei guai, buttato fuori dal suo gruppo e con un paio di ville che non riusciva a svendere. Aveva la sua voce, ancora, ma doveva bere meno, rimanere lucido, ed era dura spezzare una caduta, poi lui era inciampato in alto. Tre anni prima, lui e il suo gruppo avevano riempito le arene e le radio di mezzo mondo, la settimana prima si era esibito in una Tv privata per 500 dollari.
Per tutta la notte, aveva sentito copie di chitarristi, gente che scimmiottava ora Van Halen ora Jimmy Page, ragazzi senza nerbo, con muri di effetti e di elettronica, dita agili ma spente. Li ascoltava, ad uno a uno, e sentiva il baratro vicino.
La scheda, e il nome.
Yngwie.
Un bambino, cazzo, un bambino. 16 anni.
“Fallo entrare”.
Molti anni dopo, Buckethead, seduto e con la testa in fiamme, la sua piscina enorme davanti al parco, avrebbe ripensato a lungo a quell’istante.
Da uomo vecchio, le cose le vedi sfocate, però meglio, anzi a grandangolo. Come avere un tavolo davanti, ed è la tua vita, con sparpagliate le azioni, i bivi, le volte che ti sei seduto ad ascoltare un ragazzino, quelle in cui hai tirato avanti divorato dalla presunzione di capire.
Là, in fondo al tavolo, c’è la tua gioventù, quella in cui eri TU ragazzino e chiedevi di essere ascoltato, mentre ti infangavano lo Spirito con parole sorde come esperienza, maturità, qualità che non potevi avere, dicevano. Allora ti affidavi a scorciatoie, magari ascoltavi il rock per digrignare i denti di nascosto, ma all’occorrenza piegavi il capo, ti vestivi bene,ti adattavi alle esigenza di una società che chiedeva spremute, non distillati. Là, in mezzo al tavolo, c’era quella volta in cui ti avevano voluto rammentare che sul lavoro eri l’immagine della tua azienda. Oppure, ed era il caso di Buckethead, c’era stato il primo contratto firmato, con poi un pubblico da soddisfare, non più da colpire o da stupire come quando aveva avuto 15 anni, e si dimenava in una cantina squarciando l’angoscia con una voce da primato, senza veli, roca, rock, una voce che avrebbe venduto milioni di dischi, ma diversamente, non più pura.
E nel tavolo, qua e là, c’erano gli incontri, e per Buckethead, tutta la vita, dal fondo del tavolo fu possibile scorgere quello con Yngwie, quello che gli ridiede slancio, milioni di dollari, il numero uno in classifica, e un’anima insozzata da Tv, interviste, persino smoking.
Yngwie entrò nella stanza che fuori Los Angeles era ancora appiccicosa dagli eccessi della notte, ed era il momento giusto, le strade stavano lasciando in pace i suoni, ancora.
Aveva due chitarre, una per lato, si sedette e tirò fuori la prima, una chitarra classica, Buckethead squadrò la scena, il moccioso era il primo a presentarsi con un’acustica ad un provino per un gruppo rock. D’impeto, invece di urlare FUORI, esclamò:
“suona qualcosa”
Yngwie lo guardò tranquillo, poi Buckethead non capì più nulla, davvero: perché nessuno, al mondo, aveva prima di quell’istante suonato, su una chitarra acustica, veloce come uno squarcio in una stanza, sbriciolando l’impossibile e il difficile, un Capriccio di Paganini, a quel modo poi, le cinque dita della mano sinistra infoiate ma coordinate, cazzo coordinate, con la stratosferica velocità della mano destra, ove tre dita saltavano come impazzite sulle corde mentre medio e pollice, simultaneamente, e provate ad immaginarla, la scena, tre dita per conto loro e due per altro conto, con un plettro in mezzo, tutte queste dita appartenenti alla stessa mano fendenti l’aria come se mancasse attrito, nell’aria di Los Angeles. Avete letto, non riesco neanche a coordinare i verbi, a descrivere quella scena là. E due minuti dopo il moccioso armò il braccio con una chitarra elettrica che presto fu vicino alla ex rock star, ora attenta, sveglia, sudata nel cuore per un battito veloce, di emozione, e da vicino la rock star, già non più ex, come farsi scappare quel moccioso dalla sua band, pensò, vide che la chitarra aveva tre corde, tre dico, il ragazzino aveva spolpato la sua chitarra elettrica regalo di una nonna in quel momento davanti al fuoco di un camino di una lontanissima baita svedese sommersa da neve bianchissima come su tutte le colline di quel paese lontano, e Yngwie suonò un brano che sei mesi dopo arrivò poi in testa alle classifiche del lontano Giappone, un brano con un ritornello martellante, ma BELLO, e tre assoli assurdamente veloci e micidiali, che sfottevano l’assenza di tre corde e tutti i chitarristi che al mondo erano ormai schiavi dell’elettronica e dei trucchi e degli effetti. Allora Buckethead, alla fine di otto minuti di provino, guardò fisso gli occhi di ghiaccio ( quello che solo un mese dopo avrebbe poi ricoperto l’intera Svezia) del ragazzino e disse:
“Dove cazzo hai imparato a suonare così? “
“Da solo”
“…”
Silenzio.
“Da quando suoni? “
“La chitarra? “
C’era da impazzire, con quel ragazzino lì.
“Perché…cos’altro suoni? “
“Il pianoforte”
“…”
Silenzio
“Ok, da quando suoni la chitarra, e da quando il pianoforte “
“Il piano da 11 anni, la chitarra da sette. Col piano solo classica, molto Lizt, Bach naturalmente, Schumann. Con la chitarra suono tutto quello che suono col pianoforte, poi Paganini, tutto, era avanti, è interessante rifarlo adesso, con la chitarra, c’è fraseggio…poi ho cominciato col rock, ho arrangiato Hendrix, Blackmore, ho limato i capotasti perché volevo essere più veloce e…”
“Ok, fermo, le cose tecniche le dirai alla stampa, ok? Ma cosa hai suonato prima, davanti a me, dico…”
“Prima Paganini, poi un pezzo mio, l’ho composto due anni fa, ho un sacco di roba così, la definirei neoclassica, suono la musica classica con uno strumento di oggi come la chitarra rock”
“Che dicono i tuoi di vivere a Los Angeles?”
“In Svezia, a 16 anni, vivi già solo, anche in famiglia”
Così.
D’un fiato, Buckethead seppe chi era Yngwie, e già comprese che non sarebbe durata molto, con quel moccioso lì. Oh, certo, abbastanza per una montagna di soldi e almeno due dischi da spaccare, ma poi si vedeva che se ne sarebbe andato per i fatti suoi, sarebbe diventato solista, e già lo vedeva grasso, e flaccido, imbastardito dal successo, una star, il grasso a risparmiare solo quelle dita senza senso, lunghissime e noncuranti della velocità, prima o poi qualcuno sarebbe stato ancora più veloce, e allora lui avrebbe rinnegato la velocità, avrebbe detto che non è tutto, storie di uomini che prima esplorano e poi rinnegano l’importanza dell’esplorazione quando non sono più capaci di farla.
Molti anni dopo, Yngwie avrebbe bussato alla porta del ricchissimo, e ormai stremato dalla malattia, rock star, e Buckethead avrebbe scacciato via la coda dei questuanti e dei fan ormai inutili, e poi Yngwie, grasso, troppo grasso, si sarebbe seduto a fianco del letto orrendamente decorato con oscene figure dorate, avrebbe sfilato da una custodia intarsiata una chitarra strana, stranita, con due sole corde, e avrebbe suonato un pezzo alla salute della vita, e dei suoi errori.
Buckethead lo guardò disteso, così Yngwie capì che doveva parlare, per l’ultima volta.
“Non sono mai riuscito a suonarne solo una, sensatamente, di corda. Vecchio, ho anche rallentato, ma non sono mai riuscito a suonarne solo una.”
Così Yngwie assistette alla morte del vecchio Buckethead.
Così è il rock, quando ti rumina dietro tutta la vita.