Fabio Palma

Infinite jest

IL PASSEGGERO, recensione dell’ennesimo capolavoro di CORMAC MC CARTHY

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Quando lasciarono Città del Messico l’aereo solco’ il blu del crepuscolo per ritrovare la luce del sole e piegare sopra la città e la luna scivolo’ lungo il vetro della cabina come una moneta cadrebbe in mare. La sommità del Popocatèpetl apparve tra le nuvole. Sole sulla neve. Le lunghe ombre azzurre. L’aereo viro’ lentamente verso Nord. Lontano là sotto la sagoma della città coi suoi reticoli malva carico come un’immensa scheda madre. Le luci avevano cominciato ad accendersi. Un disturbo per il buio.

Se La Strada era inevitabilmente, come peraltro Non è un paese per vecchi, un grandioso romanzo di ovvio successo commerciale e trasposizione cinematografica, entrambi di semplice e rapida lettura, con Il Passeggero il genio Cormac Mc Carthy torna a Suttree e a Meridiano di Sangue, ovvero chiede al lettore di ragionare su ogni paragrafo, citazione, dialogo, avvenimento, alzando ulteriormente l’asticella perché In Suttree e Meridiano di sangue, nonché nell’imperdibile Trilogia della Frontiera (Cavalli selvaggi, Oltre il confine e Città della pianura), c’era tantissima filosofia e letteratura, mentre The Passenger va oltre, giustamente ammette le uniche mancanze dei precedenti capolavori, ovvero le conseguenze profonde che la matematica e la fisica, soprattutto quantistica

Quando ti accosti a certe descrizioni matematiche della realtà non puoi evitare di perdere quel che viene descritto. Qualunque indagine soppianta ciò che indaga

, ha lasciato nel pensiero e nello sviluppo umano. The Passenger ha il fortissimo rischio intrinseco di sbarazzarsi più volte del lettore (le pagine in corsivo, ovvero la schizofrenia di Alice, il diverso urta e respinge, e Cormac fin dall’inizio dimostra che del numero dei lettori nulla gliene è mai importato), d’altronde Cormac ha fatto di tutto per morire prima, facendolo attendere per anni, insieme a Stella Maris, quando già era completato.

La Strada può essere letto già in terza media, al posto di inutili libri dati a forza in noiose letture vacanziere, Non è un paese per vecchi è ancora più banale sia pur meraviglioso in sviluppo e idee e citazioni, mentre The Passenger è più difficile di qualunque libro di Faulkner o Pynchon, è un libro omnisciente, è un test di cultura e ragionamento, dove non puoi che prendere insufficiente in più materie, uscirne con debiti ovunque, costretto a più esami di riparazione, chissà per quante volte. The Passenger è la nona di Beethoven della letteratura, va oltre l’uomo senza qualità e Joyce, anche perché è quanto di più moderno possiate immaginare. Fusione fra i Dream Theater degli anni d’oro (a me ha ricordato tantissimo Metropolis Pt. 2: Scenes from a Memory) e gospel, con tocchi dalle migliori composizioni di Keith Jarrett.

La trama c’è e si sta incollati alle pagine per sapere come va a finire, ma è tutto un inganno, è l’ultima cosa che conta, ed è la prima grande provocazione: non esiste trama, non esiste finale, anzi sì, è quello uguale per tutti, perfino per un super talento come Bobby Western, che amici e amiche sfigati e reietti adorano e che in improbabili e magistrali dialoghi eruttano grandi quesiti esistenziali inframmezzati da scurrili note sul mentre. Sono loro, rifiuti della società, i più attenti osservatori del Male imperante, della disgregazione della Logica, del Sentimento, delle cose buone. Non ci sono le scene crude e horror de Il buio fuori e figlio di dio e Meridiano di sangue, ormai sappiamo che tutti sono così, efferati anche nella normalità (copula con un’anguria del ragazzo in Suttree, il bambino frutto di un incesto abbandonato nel bosco da Il buio fuori, e tanti altri orrori scritti con una lirica da Omero moderno) ci sono solo le conseguenze e le domande insolute, In ultima analisi non c’è niente da sapere e nessuno per saperlo

La società non si cura di te e il complottismo che comincia a serpeggiare è figlio di evidenze

La verità è che siamo tutti in arresto. O lo saremo presto. Non hanno bisogno di limitare i tuoi movimenti. Gli basta sapere dove sei

E le sentenze vengono spesso da personaggi improbabili in dialoghi come sempre irraggiungibili per chiunque nella stria della letteratura, come l’amica trans di Bobby, Debussy,

la bontà divina appare in posti strani

 e Alicia, la sorella, ci inchioda all’angolo

Le aveva chiesto se credeva in una vita ultraterrena e lei aveva detto che non la escludeva. Che era possibile. Dubitava soltanto che fosse destinata a lei

Alice che vede e capisce soltanto nelle allucinazioni, grazie a una grammatica senza fronzoli, senza regole (e tutta la scrittura impareggiabile di Cormac verrebbe bocciata allo scritto di maturità…), dove paure e sentimenti esplodono senza alcuna barriera, disturbando ma andando al cuore delle cose. creando alla fine…mancanza e legame.

L’ultimo capitolo è un furore di analisi su ciò che siamo e diventeremo, dà perfino dei suggerimenti di approccio quotidiano al lavoro e allo sport quando sei chiamato ai blocchi di partenza

La preparazione a qualsiasi sfida consiste soprattutto in un lavoro di sgravio. Portarsi il proprio passato in battaglia significa darsi in pasto alla morte. L’Austerita’ allevia il cuore e mette a fuoco la vista. Viaggia leggero. Un paio di idee sono più che sufficienti

E contiene momenti come questi dove, personalmente, ho dovuto leggere ad alta voce e due volte per comprenderne il primo (perché chissà quanti altri ce ne sono) significato

L’ultimo degli uomini è solo nell’universo che si oscura intorno a lui. Piange ogni cosa con un unico pianto. Nei resti pietosi ed esausti di quella che un tempo fu la sua anima non troverà niente da cui plasmare la benché minima cosa divina che lo guidi negli ultimi di questi giorni

La scienza assume un ruolo di primo piano ma ci pone davanti ad ancora più dubbi, McCarthy aveva già usato il paradosso del gatto di Schrodinger in Non è un paese per vecchi (Chighur uccide o meno Carla Jean? Siamo dentro o fuori quella stanza?) e avverte che

In ultima analisi non c’è niente da sapere e nessuno per saperlo

Nichilismo massimo? Non c’è speranza? Le ultime 20 pagine sono sempre più complesse, riflessive, difficili. Ricordate il clamoroso monologo del senzatetto vagabondo in Città della pianura? Qui arrivano tutti in sogno, possono permettersi una forma di linguaggio che probabilmente solo Faulkner e Joyce hanno avvicinato

Abbiamo parlato un sacco.

Forse saremmo riusciti a sincronizzare i nostri sogni. Come i cicli mestruali nelle sorelle di spirito. Nonostante i frequenti sarcasmi devi dire che mio malgrado che ho sempre ammirato il tuo modo di condurre il lutto a tali vette. L’elevazione del dolore a una condizione che trascende l’oggetto stesso del cordoglio. No, messere.

Dammi retta. È l’idea della perdita. Sussume l’ordine di tutte le cose perdute. È la nostra paura primaria, e possiamo attribuirle quello che vogliamo. Non ti invade la vita. C’è sempre stata. In attesa della tua indulgenza. In attesa della tua concessione. Eppure sento che ti ho sottovalutato. Come separare la tua vicenda da quella del volgo. É sicuramente vero che non esiste un terreno comune della gioia come esiste del dolore. Niente ti assicura che la felicità di un altro assomigli alla tua… Ma sulla natura collettiva della sofferenza non possono esserci dubbi. Se non siamo alla ricerca dell’essenze, allora cosa cerchiamo? E ti do atto che non possiamo scoprire una cosa simile senza apporvi il nostro sigillo. Ti concedo perfino di aver pescato le carte peggiori. Però ascoltami, messere. Se la sostanza di una cosa resta da dimostrare, difficilmente la forma ha più autorevolezza. Ogni realtà è perduta e ogni perdita è definitiva. Altre non ce n’è. E la realtà che indaghiamo deve prima di tutto contenerci. E cosa siamo noi? Dieci per cento biologia, novanta per cento mormorio notturno

Joyce avrebbe applaudito in piede e Faulkner riconosciuto il suo miglior successore.

Che si fa, allora? Si alza bandiera bianca? Siamo alla fine, sono alla fine, ci dice Cormac, infatti me ne andrò il 13 Giugno, io ve l’ho scritto in almeno 8 capolavori cosa sta succedendo, ora non mi resta che lasciarvi così, sono come Bobby Western

La tempesta passò e il mare scuro si stendeva freddo e greve. Nelle gelide acque metalliche le sagome ribattute di enormi pesci. Nei flutti il riverbero di un bolide liquefatto che avanza nel firmamento come un treno in fiamme. Si chinò sulla sua grammatica alla luce della lampada. Con il tetto di paglia che sibilava nella campana di tenebre sopra di lui e la sua ombra sulla superficie grezza del muro. Come quegli studiosi dei tempi andati che sgobbavano sui loro rotoli nelle loro fredde stanze di pietra. I paralumi delle lampade fatti di gusci di tartaruga bolliti e raschiati e forgiati in un torchio e le geografie casuali che proiettavano sui muri della torre paesi ignoti agli uomini così come ai loro dèi. Alla fine si sporse e raccolse le mani intorno al cilindro di vetro e soffiò sulla fiamma e si stese nel buio. Sapeva che quando sarebbe morto avrebbe visto il suo volto e sperava di portare con sé quella bellezza nelle tenebre, ultimo pagano sulla terra, cantando piano sul suo giaciglio in una lingua sconosciuta

La domanda è, ma chi porta il fuoco, allora? Al bambino de La Strada, cosa offriamo?

Abbiamo visto, della società, dei governi, niente da aspettarsi. Loro pensano solo ad affari politici e a chissà che. E quando se ne vanno anche i migliori amici, quando devi sparire perché sei un rifiuto?

Forse fu un cane a svegliarla. Qualcosa per strada nella notte. Poi, il silenzio. Un’ombra. Quando si voltò c’era una cosa sul davanzale. Rannicchiata sulla panca con le mani artigliate ai ginocchi, sguardo lascivo, la testa che ruotava lentamente. Orecchie d’elfo e occhi gelidi come biglie di marmo nella luce cruda della lampada al mercurio del giardino proiettata sul vetro. Si mosse e si voltò. Una coda di cuoio scivolò sopra le zampe di lucertola. Gli occhi ciechi la misero a fuoco. La testa ruotò sul collo sottile cinto da un collare di ferro nero. Lei segui quello sguardo senza palpebre. Qualcosa nelle ombre oltre la luce dall’abbaino. Alito del vuoto. Un’oscurità senza nome né misura. Lei nascose la faccia tra le mani e sussurrò il nome del fratello

Dio e la speranza e il fuoco sono in errori improbabili, rapporti improbabili, gente improbabile. Una visione molto francescana, religiosamente umana. Cormac Mc Carthy se ne è andato, io dico, invitandoci a sederci a tavoli sgarruppati senza badare alla forma e al vestire e al curriculum di chi ci è di fronte, continuando ad ascoltare vagabondi per strada, sogni e allucinazioni, e soprattutto a farci una nostra grande cultura personale, trasversale e più completa e profonda possibile, perché la deriva a cu stiamo assistendo è di riempirci di vuoto. Nei dialoghi fra Bobby Western e i due funzionari vestiti come mormoni c’è tutta quella irreparabile distanza fra ciascuno di noi e chi ci assiste, governa, consiglia. D’altronde, le istituzioni non gli hanno neppure mai dato il nobel, sapendo che a lui nulla importava.

Il Thalidomide Kid (il nome dal noto farmaco…) che domina le allucinazioni di Alicia, morta suicida, a un certo punto rivela, facendosi serio

Il mondo non sa che sei qui. Tu questa cosa credi di capirla. Ma non la capisci. Non intimamente. Se così fosse saresti atterrita

Non si può fare a meno del male, esso è ovunque, come l’indifferenza. Accoglilo, fronteggialo, cerca sempre e comunque il fuoco, anche e soprattutto nel reietto.

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