Nessun fatto reale da cui ho tratto ispirazione, per questo racconto. Rileggendolo, vedo un legame con lo storico duello Powell-Lewis, salto in lungo. ma forse è solo un’impressione
Nella corsa
“Cerco di bere la vita invece di sorseggiarla da astemio.”
“A me sembra che alla gente piaccia sapere di tappo, non che lo voglia veramente, ma vedo che tende a conservarsi, come se il meglio dovesse essere sempre rimandato, il meglio di se, dico. Però è un po’ come il vino, il Natale scorso papà ha stappato una bottiglia che aveva quarantanni, e il vino sapeva di liquore, non che fosse malvagio, io poi non bevo, ufficialmente, sono piccolo, però sono andato sul terrazzo a scolare la bottiglia, di nascosto, ovviamente, e sapeva come di alcol, come quella di brandy che avevano aperto il mese prima.
Papà diceva a tutti, questa è una bottiglia speciale, l’ho tenuta in serbo per decenni, ha più della mia età, però poi si vedeva che non era contento, del sapore, era inaspettato, magari particolare, originale, ma non più autentico, e non è la stessa cosa essere originali o essere autentici, anche se a me sembra che anche in classe ci si debba comportare da originali per essere osservati, ma bisogna stare sempre attenti alla propria autenticità, forse perché è propria”
Silenzio.
Applausi.
Luci che si accendono, prima discretamente, poi come brillanti.
“E questo suo padre lo scriveva a nove anni…”
“Sì, e l’ho voluto mettere nel libro, era un esempio del suo talento, di come vedesse le cose, di come scrivesse”.
“Ma poi lei nel libro scrive che smise quando l’atletica lo assorbì, quando cominciò a vincere”
“Sì, è così. Sul muro di casa c’era un quadretto con una sua frase, ora non la ricordo bene, col tempo si è perso, però il senso era che l’orizzonte di ciascuno è scritto nelle distese africane, la giungla è il tempio delle possibilità, la savana delle differenze, il deserto delle scelte personali. Perché quando si sceglie davvero, si entra come in un deserto, la gente ti evita se va bene, ti sparla alle spalle se diventi qualcuno. Invece se ti differenzi appena, sei riconosciuto, tollerato. Mentre se salti da una possibilità all’altra ma senza mai veramente scegliere, sei come in una giungla, insignificante per te e per gli altri, nella giungla non ci sono re e l’unica regina è la giungla stessa, tutti sono in balia di lei”.
“Non trova che avrebbe potuto diventare qualcuno, come scrittore?”
“Sì, ma mio padre era ambizioso, e quando fece quel tempo, a scuola, capì subito che sarebbe potuto diventare qualcuno in fretta, popolare. Diventò la sua ossessione. E io dico che era come entrare in un deserto ma sotto i riflettori”
“Lei scrive che le raccontò decine di volte dei suoi esordi…”
“Sì, che poi furono dirompenti, poi i 400 metri non è che fossero disciplina per tutti, si correvano giusto una volta all’anno, a scuola, anche adesso ci si iscrive per fare qualcosa di diverso, ma chi li corre anche una sola volta seriamente li evita per sempre, hai solo bastonate, dai 400 metri. Perché non è una fucilata come i cento metri, dove neanche pensi, ti alzi dai blocchi e sei già arrivato, ma non c’è neanche tutto il tempo della strategia del mezzofondo, perché lo sforzo è così drammatico che il cervello è annebbiato dai cento metri in poi, poi tiri al traguardo e sei così sotto di te che odi tutto, la corsa, gli avversari, la pista, il pubblico che ti incita invece di fermare quell’asfissia”
“A diciotto anni il mondiale..”
“Già, e a soli venti mesi dalla prima corsa. Ma il tempo c’era, era il migliore del paese, insieme a…”
“Insieme a Speziali…”
“Sì, e si allenavano insieme, erano fratelli, e avevano lo stesso tempo, praticamente, tra i migliori al mondo, e con lo stesso tempo. Solo che in allenamento erano andati entrambi sotto il mondiale, ed allora c’era di mezzo anche la staffetta, e lì avrebbero spaccato, in gergo si diceva così”
“Così rinunciarono all’individuale”
“Sì, magari è strano, suona strano, ma avevano fatto i conti, se avessero corso l’individuale avrebbero lottato per il podio, magari avrebbero stabilito il mondiale, ma ci sarebbe stato un primo e un secondo, comunque uno avrebbe prevalso sull’altro, e non lo volevano, e poi erano ambiziosi, e avevano capito che coi loro tempi, in staffetta, con Paci e Viganò che comunque erano da finale, sarebbero entrati nella leggenda”
“Così, tutto era calcolato, tutto…”
“Sì, tutto limpido, strano, ma limpido. Diseguale, ma logico…solo che ci fu quella cosa…”
“Ecco, lei racconta di questa storia che getta quest’ombra enorme su quella vittoria, sul record, su tutto”
“Sì, era arrivato il momento di dire tutto, mi sembrava giusto, poteva insegnare qualcosa”
“E scoppiò la mattina della finale”
“Sì, quando l’allenatore stravolse i cambi…nell’altra semifinale gli americani avevano fatto il mondiale, noi avevamo corso volutamente sotto le possibilità ma il tempo degli americani faceva paura, era vicino al migliore mai registrato in allenamento. Così non solo era in dubbio il tempo da leggenda, ma perfino la vittoria. E Segni, l’allenatore, ragionò bene, comunque ragionò. Invece di metterli primo e terzo, da sfruttare la partenza ai blocchi che dava sempre a mio padre un vantaggio psicologico perché sapeva partire forte e poi tenere per la fine, con Speziali ad assicurare vittoria e tranquillità per Paci in quarta frazione, mise Speziali in quarta, per il finale…”
“E…”
“Eh, cosa successe veramente l’ho solo letto dal diario, mio padre non ne parlò mai. E quando lo lessi, fu un brutto colpo. Perché capii che mio padre smise con quella gara non perché appagato e non per mancanza di motivazione, ma per il crepitare della gelosia, lo smottamento delle sue certezze dovuto al rodere dell’ambizione. La sua fuga, con me appena nato, era una ritirata, da se stesso”
“Le dispiace leggere quella pagina, qui, di fronte alla telecamera?”
“No, sono venuto per questo, per diffondere la verità”
Figlio, tra qualche anno ti chiederai dove sia finito, e perché sia scomparso così, da vincitore. Da eroe.
Voglio che leggi queste righe con l’anima aperta, se è vero che questa cosa, l’anima, sia davvero di tutti. Perché io non ce l’ho, quest’anima, la persi durante i 43 secondi della mia ultima gara, quando rallentai a venti metri dal cambio, a venti metri dal mio compagno, Paci. Simulando fatica, trasfigurando il viso, spalancando gli occhi come in un conato di respiro vomitato nell’ultimo sforzo.
No, figlio, stavo bene, a venti metri dal traguardo. E con due secondi sull’americano, andavo a dare un cambio definitivo, poi avremmo conservato e Speziali avrebbe frantumato il mondiale, abbracciato la vittoria, scritto la leggenda. Un tempo che avrebbero battuto anni e anni dopo, sarei stato negli annali per sempre.
Ma il traguardo finale l’avrebbe tagliato lui, Speziali, le telecamere avrebbero filmato gli ultimi secondi da tramandare alla storia con la sua faccia, e io sarei rimasto un nome, e un nome non è mai profondo quanto un’immagine, l’immagine resta come sollevata al di sopra nel tempo, da quando si riprende tutto, mentre un nome, specie se affogato in una lista di quattro che leggi a ritroso, si insabbia nel dimenticatoio della gente che non è mai capiente a sufficienza, c’è sempre spazio per l’oblio.
Così decisi di perdere, tentai di perdere, con quel rallentamento giustificato, comprensibile da quanto avevo fatto per 380 metri, e diedi il cambio in quel modo strambo, quasi sbagliando lato, come ad offrire un destro invece di un sinistro. Abbastanza per non dare sospetti, e farmi recuperare dall’americano, e poi avrebbero risucchiato Paci e Viganò, e Speziali non ce l’avrebbe potuta fare.
Invece vincemmo, col record, e facemmo il giro della pista, e poi cominciarono le interviste, e ci abbracciammo, diventammo eroi nazionali, simboli, primatisti.
Solo che io, figlio, avevo perso, avevo vinto solo in superficie, nel profondo ero stato espulso, squalificato, dalla vita.
Si può cadere nella propria vergogna anche quando vinci per tutti, questo ti volevo dire, figlio, nemmeno chiedendoti perdono o comprensione, solo di guardare in fronte la realtà che non è mai quella ripresa da una telecamera, neanche da quelle intelligenti.
“…”
“…”
“Pensa che ci sia una lezione di vita, in questa storia che ha voluto diffondere?”
“No, farei anche un torto a mio padre. Nessuna lezione, però, ecco, due amici che si separano per una vittoria a me sembra che…sì, è come sorseggiare da astemio, capisce? Non andare mai al gusto delle cose, accontentarsi del gusto delle cose. Se ci fosse stato soltanto il gusto del correre, in quella finale, mio padre non avrebbe perso l’anima. Ho pensato così, forse mi sbaglio, ma così ho ragionato”
Silenzio.
Applausi, ma timidi.
Poi sullo schermo, dopo il saluto del conduttore, le immagini di chiusura trasmissione, un’altra puntata de “i vincitori” si era chiusa. L’ultimo titolo di coda si dissolse su Speziali a braccia alzate, sul traguardo.