Fabio Palma

Infinite jest

L’ARCOBALENO DELLA GRAVITA’, T. Pynchon

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Pag. 607: “non guardare al passato, c’è un tale rumore, una tale gravità”
Un libro, e ancora di più un romanzo, dovrebbe anche involontariamente generare delle diversità, di pensiero, di emozioni, di apprendimento. Portare qualcosa, insomma.
Come la maggior parte dei romanzi che superano le costrizioni commerciali delle 200 pagine (ultimamente, ahimè, tendenti alle 100…), l’arcobaleno della gravità, di ragionamenti e riflessioni, ne induce un bel po’.
Anzitutto, l’ho trovato un romanzo storico, per l’eccezionale raffigurazione della Germania post-resa, nella quale parecchi delle centinaia di protagonisti del romanzo si muovono a partire dal capitolone Nella zona. Fino a quel momento, il romanzo si muove persino su binari a pochi scambi, se ripenso a V. e Contro il giorno. Un incipit straordinario (che parte dal finale di Contro il giorno, infatti “è già successo prima”), quasi epico, che non t’aspetti da Pynchon, che infatti rimedia con le banane più grosse del mondo, cresciute, ma guarda un po’, a Londra (…). Nella lingua, in quella misteriosa centrifuga di parole che è la narrativa, lui (che non possiede, tanto per fare esempi, il tocco di un Faulkner o di un Wallace) dà qui il suo meglio, perchè laddove in V. e in Contro il giorno a dare spettacolo è il funanbolismo, qui arrivano frasi e architrave finissime, cesellate, raffinate; da pag. 152 a pag. 155, per esempio, si ride a crepapelle, si rimbalza fra erotismo e pornografia, ci si addentra nella poesia, il tutto anche nella stessa pagina. Le pagine 173-174 sono degne del miglior Faulkner, con lirismo e intensità. Nella coppia 187-188 ho ripensato al Matteo di Sartre ( bestemmia letteraria, forse. Scusate. Eppure ho avuto una rievocazione dell’Età della ragione…).
Mi stavo, insomma, crogiolando in una trama con diverse derivate ma, bene o male, rappresentabile su un canonico piano cartesiano, annotandomi le pagine dove comparivano i nomi propri ( per me, fondamentale. Es. Franz Pockler compare, dimesso, a pag. 210, ma è personaggio fondamentale, che Slothrup incontra a pag. 732. Pockler, infatti, è colui che, prigioniero del capitano Weissman , che ne tiene ostaggio la figlia Ilse, nei laboratori di progettazione delle SS arriva finalmente ad applicare la famigerata plastica Imipolex G al razzo ultimo, quello che appunto Slothrup sta cercando, perchè farebbe luce sulla sua vera identità. Sulla sua vita. Slothrup tenta l’impossibile, ricostruire il film della sua vita! Lascerà, nelle ultime due pagine, una canzoncina, sul suo tentativo…), ricostruendo alcune delle storie più affascinanti ( Cycerin, Ezian, Katie, Blicero, Roger Mexico, Pointsmann, i due medium Carrol Eventyr e e Peter Sastra. Io segnalo questi, da “taggare” senza sconti. Ma magari voi ne aggiungerete altri, d’altronde, su 400…), segnandomi anche stili e tecniche narrative.
Il problema, però, è che avevo dimenticato che si stava parlando di un razzo, anzi, del primo razzo umano, che (ci arriva prima la derelitta Katie, ad intuirlo), da un certo punto in poi vive di coscienza propria. Forte di sane conoscenze in materia e di una solida preparazione matematica, infatti, Pynchon si attarda a spiegarci con particolari anche avvincenti la genesi della progettazione del razzo, i problemi di combustione iniziale, gli studi per la corretta balistica. Dov’è il controllo, chiede lo spettro a pag. 222.
Appunto. Da un certo punto in poi, il razzo va per conto suo, più o meno verso il giusto obiettivo (dopo esilarantissimi esperimenti). Poteva, Pynchon, non attenersi a cotanta allegoria e continuare su canonici schemi narrativi? E’, ovvio, no, e d’altronde l’unico vero protagonista principe, Slothrup, ha nel nome il concetto di entropia. E poi, appunto, ci si addentra nella zona, dove le potenze vincitrici sono ben lontane da ricostituire un ordine decente e presentabile, dove regna il caos e la turbolenza, dove una nave bislacca trasporta il massimo degrado morale che ci si possa immaginare, dove l’unica vera organizzazione è un agglomerato di neri, Herero sopravvissuti allo scempio tedesco della Namibia ( e portati in Germania da Hitler stesso, che li mette a guardia del razzo, intuendo il loro Spirito missionario ed etico. Sublime idea storica-narrativa), che si fanno beffe di spioni, militari o industriali, in una rivendicazione quasi sociologica dell’ancestralità. Come a dire, avete voluto massacrare il mondo, bene, siamo noi, i primitivi, gli unici a raccapezzarci, troppo comodo arrivare un minuto dopo del the end e pensare di ricomporre tutto in quattro e quattro otto, per giunta cominciando pure dall’agognato schattgerat, il razzo 00000, l’ultimo, quello che avrebbe fatto vincere la Germania, se fosse arrivato in tempo.
E così, fra orge, travestimenti da maiale, fughe in pallone aereo-statico, sniffate di droga e duelli a distanza con chi lo voleva controllare fin dalla nascita, Slothrup vaga alla ricerca del razzo ultimo, e di quella plastica misteriosa frutto di una ricerca internazionale.
Eh già, perchè Pynchon dipinge anche un cartello multinazionale che se ne frega di morti e distruzioni e che, ben al di sopra del potere politico, gioisce e gode per le riuscite militari (ehi, ma mancavano 20 anni alle guerre del golfo, Thomas!); ci dice che Slothrup è in realtà un uomo esperimento, ed ecco perchè è in grado di sapere con anticipo dove cadranno le V2 a Londra ( è proprio l’unico, perchè le V2, più veloci del suono, prima cadono e poi si fanno sentire…). Le sue premonizioni interessano anche Portmann, un sadico chirurgo della White Visitation, che manda a cercare il nostro eroe (!) in tutta la zona ( ah, la scena della castrazione del maggiore americano Mavy, pag. 786. In Pynchon, il potere sessuale è primo e potentissimo potere umano). Zona che però è anche infestata da Cycerin, testa di ponte dello spionaggio russo, fratello del nero meticcio Ezian (capo degli herero della zona), indeciso se obbedire ai capi o fregarsene e far fuori il consanguineo, perchè proprio non gli va giù avere un nero del suo stesso sangue.
L’ultimo capitolone, La forza contraria, è terribile: si arranca nella lettura, il razzo va ormai per conto suo, la conosciuta gravità è andata a farsi fottere ( da qui l’arcobaleno?), e a pag. 927, in uno dei rari paragrafi abbastanza comprensibili, si afferma che “il Razzo viene sotto le spoglie del Rivelatore. Ci mostra che nessuna società è in grado di proteggere, non lo è mai stata-le società sono assurde come scudi di carta”. E’ Enzian, il capo Herero, che parla. L’unico che intuisce la potenza dell’avvento del razzo. E infatti prosegue dicendo che “Prima del Razzo abbiamo continuato a credere solo perchè volevamo farlo. Ma il razzo può scendere dal cielo in qualsiasi momento, può penetrarlo dove e quando vuole. Nessun posto è sicuro. Non possiamo più credere in Loro. Per lo meno, se siamo ancora sani di mente e se amiamo la verità”.
Capite? La società, arrovellandosi per distruggere e per controllare, ha generato, inconsapevolmente, un Rivelatore. Il Razzo arriva senza neppure il suono, colpisce e uccide, niente può proteggerti. E le superpotenze vincitrici si approprieranno della sua tecnologia, la svilupperanno, per arrivare ai missili, alla luna ( sì, violenteranno anche la divinità superiore degli Herero, e Ezian lo preannuncia. Non c’è scampo neppure per la divinità), dimenticandosi dell’elemento semplice, l’uomo, che infatti tende ormai all’anarchia diffusa, nella vita (vedi la Zona, appunto), e nella narrativa, anche ( eccomi, eccomi, dice Pynchon, nelle terrificanti ultime pagine, dove lascia che tutto vada per conto suo, in fondo il razzo sta per atterrare, no? Chi lo sa dove.
“ Il vero momento d’ombra è il momento in cui vedrai il punto di luce in cielo. Il punto singolo, e l’Ombra che ti ha appena raccolto sotto la sua ala…”, dice il supersadico Blicero, l’uomo delle SS che sovrintende i lanci, e in particolare l’ultimo, quello definitivo, con il suo Gottfried dentro. Katie, l’altra, è fuggita, rivelandosi la spia che sospettava. Ma Blicero sapeva che è nella omosessualità, quindi NON nell’opposto, che stava la sua vera dimensione. Ti puoi fidare solo di te stesso, no? E manda il suo schiavo a vedere cosa davvero succede, lassù, nella discesa).
Nella nostra zona storpiata, infelice, c’è un’anima in ogni pietra, canta la canzone finale. Un inno fuori stampa, si dice.
Ecco, ho dimenticato un migliaio di riflessioni ( Cycerin dai Cirghisi, ad insegnare l’alfabeto. La battaglia politico-militare sulle consonanti. Perchè è il verbo che conta più di ogni altra cosa, e come annunciarlo, lo sappiamo, è fondamentale, è da lì che si dipana tutto…), un centinaio di annotazioni, e, soprattutto, un mare di punti di domanda. Pensavo che il mio Genius fosse un po’ complesso, e che stessi esagerando in quello che, a tempo superperso, sto buttando giù, disordinatamente, ma libri come questo tracciano una bella riga rossa sotto la definizione di narrativa. Per esempio, sul concetto di piacere, e di bellezza. Wallace dichiarò che apprezzava il 30% di quello che aveva scritto Pynchon. Corrisponde, io credo, al massimo di quanto abbia percepito ( non capito!) del romanzo. Ci sono altre cose che vorrei aggiungere ( non è che V. e il razzo coincidono, per esempio? Benny Profane e Slothrup, che dire della loro somiglianza fisica e comportamentale?), e tantissime da chiedere. Ho letto questo libro parallelamente ad altri ( otto, per la precisione), titoli non stupidi e anzi, a volte decisamente di valore, e ho percorso la sua immersione ( sua di esso, il libro. La mia è stata una rana di galleggiamento…) maneggiandola come un esame universitario di quelli tosti, quelli che alla fine prendevi anche la lode ma che a casa ti dicevi, ma che ho capito, poi? (Analisi III, per esempio…), accontentandomi sui miei limiti, anche culturali, cercando di prendere al volo tutto ciò che riuscivo ad afferrare. Ringrazio Pynchon anche se non mi emoziona come altri, la sua è una letteratura diversa, è un cannoneggiamento sparso, da cui o ci si rifugia o si risponde con le rime, prendendo nota di balistica, traiettorie, ecc, ecc.
E’ un’avventura totalizzante, che consiglio, che potrebbe perfino disgustare, che mette con le spalle al muro, che va al di là del marketing, del piacere per piacere. E’ uno studio, ecco.
Quando succede qualcosa, in questo e negli altri suoi libri che ho finora letto, non c’è mai suspence, non c’è mai un’introduzione. Nel bel mezzo della frase, spesso accompagnato da un dialogo assolutamente fuori luogo e irrealistico, quell’avvenimento accade, cambia la situazione, del personaggio e della storia. Un taglio netto, così, senza avvertenze.
Come a dire…segnati una cosa, lettore, delle mie, di cose: quando il destino cambia, non c’è mai un segno che te lo dice, prima.

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