Fabio Palma

Infinite jest

LA CARTELLA BIANCA

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Questo racconto arrivò secondo ad un concorso letterario, di Bari.
Ne ho ripreso una parte per il romanzo Genius, ma la versione integrale è quella di seguito. Avrei dovuto eliminarne delle parti e migliorarne altre, come feci nell’inserimento di Genius ( in effetti, fu una delle poche revisioni che feci nel romanzo), ma mi piace scrivere di getto, senza la cosìdetta “brutta”, e vedere poi cosa ne salta fuori, senza tagli o modifiche aggiuntive. La scrittura diventa un parlare in pubblico, in diretta, e trovo che troppi libri, oggi, siano annichiliti dall’editing, che toglie genuinità al primo parto. Probabilmente l’opera migliore è quella che ha delle parti rivedute anche mille volte ( ma dall’autore!! Non da altri…), e altre in cui si tramanda soltanto la versione live, quella scritta di getto.
Eccolo qui, Celik con la sua cartella bianca. Il titolo me lo diede Yuri, aveva sette anni e per gioco lui mi dava un titolo e io, davanti a lui, dovevo scriverne il racconto o la favola, senza mai fermarmi, fino all’esaurimento del foglio, o dei fogli, che mi aveva dato.

La cartella bianca.

Tanto non gliene importava niente, si disse.
Stemperata, quasi smorta, la giornata si era aperta con un sole appena sufficiente per riscaldare la volontà di Celik. Che non ne aveva certo un camion, per dirla in gergo del suo quartiere.
D’altronde la voglia, si ripeteva Celik quasi ogni mattina di quelle lì, non è che la semini in Inverno per trovartela bella e pronta nella stagione giusta. La voglia ti deve assalire, quasi prendere alla gola, e però quando ti scappa via è proprio difficile riprenderla, le stesse azioni e circostanze che tanto metodicamente avevi seguito, e soprattutto difeso, difeso da te stesso, dagli amici, da tutti, ora puzzavano di insopportabile.
Comunque si doveva andare, al lavoro. Era un lavoro, qualcosa da dire, forse? Celik aveva risposto così, al poliziotto di quartiere appena insediatosi, che non aveva perso tempo a sottolineare la sua precarietà. Ok, era da lavavetri, ma regolarizzato, dalle otto alle diciasette doveva rendere splendenti tutti i duecento parabrezza delle auto in parcheggio nel sottosuolo del modernissimo Business Eagle center. Il servizio era stato partorito da una gravida riunione del management del dodicesimo piano, l’ultimo naturalmente, alla ricerca di novità che allietassero la facoltosa clientela.
Celik impiegava quattro minuti per le macchine fino a duemila di cilindrata, sette minuti per le più grandi. Le macchine giacevano esanimi in posti ordinatamente assegnati, e alla fine della giornata Celik stendeva il suo punto esclamativo compilando, a crocette, un foglio a tabelle da graffettare in una cartella bianca.
Il giorno prima, però, aveva trovato quel messaggio, calligrafia antica, ci disse.
-Celik, ti amo.
Né struggimento, né disperazione.
-Celik, ti amo.
Così.
Celik non era amato da tanto, tanto tempo. Esattamente, era difficile da quantificare.
Quella storia giovanile, per esempio, si era spezzata prima di essere stati capaci di dirselo, e quell’abbraccio sul barcone moribondo, balletto di cadaveri e volti, era stato di mancamento, se lo era ripetuto allo stremo fino a convincersene, perché non l’aveva più rivista.
Si disse, tanto non gliene importava niente, a quale donna bianca può importare di Celik?
Però prese il foglio e lo portò nel suo piccolo buco del sudicio quartiere, ed era l’unica cosa bianca di quel buco, pensò Celik.
Il giorno dopo arrivò nel grande garage dieci minuti prima, costato una sveglia epocale, ma non è che avesse poi dormito molto, Celik. Percorse di corsa il lungo corridoio stretto fra tutti quei cadaveri di lamiera, e dischiuse come una culla la cartella bianca, non si ricorda se col respiro di tutte le mattine o di dieci minuti trattenuto.
-Ti amo, Celik, raggio del mio sogno
Quel giorno Celik lavò i parabrezza nello stesso tempo di tutti gli altri giorni di quegli anni, eppure lo contò diverso, così ne rimase un po’ per trattenersi anche dopo la compilazione, nascondendosi dietro un pilone, l’ordine era che nessun cliente avrebbe dovuto vedere Celik, non era conveniente.
Ma nessuno si avvicinò alla cartella bianca; attese un quando, poi scrisse, su uno dei fogli di tabelle:
-chi sei?
la mattina seguente Celik arrivò nel giusto, non che avesse dormito maggiormente, anzi…
-Ti amo per come sei bello, da stringere, da assaggiare, da guardare…per come sei sereno, per i tuoi occhi, per quello che sei
Celik non comprese fino in fondo, ci disse, assaggiare era un verbo oscuro, ma la frase era calda e fresca, tremò senza freddo e quel giorno percepì come della brina cristallizzarsi nel suo petto, poi nel ventre, quel giorno lavò proprio male, ci disse…
E prese la decisione.
A fine decisione firmò il foglio, poi raccolse tutto il linguaggio migliore che potesse afferrare, e scrisse, ci disse che non aveva proprio mai scritto, prima:
-non conosco te, non conosci me, però grazie, grazie. Ma chi sei? Ho come un freddo, a leggere
Poi combattè, fra se e se, e infine si nascose dietro un pilone, aspettò che le macchine sfollassero sedendosi in un angolo, e non chiuse occhio, ci disse, neanche un minuto, e c’era da credergli, ce lo disse che ci sembrò di viverla, quella notte.
La mattina la vide, lui dice che la vide…una ragazza non tanto alta, che camminava dritta da apparire altissima, col profilo elegante di una donna ricca ma dolce come quello di una donna semplice, vestita sensuale, questo lo capimmo anche da come la descrisse…tra tanto, quell’istante lo colpì per la fronte lucida, e le gambe che si muovevano in accordo, e non c’era niente di studiato, quella donna camminava con grazia e nessuno le aveva insegnato come farlo.
La ragazza entrò nel gabbiotto, e non ne uscì…mancava molto all’arrivo delle macchine, così lui prese forza, ci disse proprio così, respirò tutta la forza di Celik, e ci andò.
Quel giorno Celik non lavò nessun vetro, anzi non ne lavò mai più, di vetri…parlarono e parlarono, lei soprattutto di come l’avesse visto bello, delle canzoni tristi che l’aveva sentito cantare sottovoce….poi gli disse che stava andando via, dalla città proprio, lui ebbe la sensazione che fosse tardi, e anche una vertigine, come quando quelle due o tre volte nella vita il pavimento oscilla o almeno così lo intuisci, fuori equilibrio, ecco, lei gli disse qualcosa sulla vita, sulla cartella bianca, sulle crocette, e per lunghissimi mesi si interrogò su quel qualcosa, nel frattempo si mise a leggere tutto, tutto quello che c’era alla piccola biblioteca del quartiere, costava nulla leggere e mancavano i best sellers del momento ma c’erano i classici della letteratura, i capolavori della storia, quelli sì, e imparò tanto Celik, quando lo incontrammo rimanemmo anche un po’ interdetti, dico parlava con un vocabolario che era la somma all’ennesima dei nostri…ma sto divagando, nella sostanza Celik una mattina si svegliò e ricordò esattamente tutto il discorso di lei, quello della cartella e delle crocette.
-Tu, mio sogno di questi mesi, sei il primo uomo che abbia visto diverso da una crocetta in una casella…tu lavi vetri e finestrini ma canti le tue melodie lontane, sorridi guardando allo scuro di un parcheggio sotterraneo, un giorno ti vidi scrutare il finestrone là in fondo alla ricerca del primo sole, e quando comparve posasti lo straccio, forse per perderti nel suo abbaglio…tu forse non mangi che un pasto ogni dieci dei nostri, ma il tuo fisico è levigato e formoso e snello come quello di un atleta antico…così io sono innamorata di te, Celik, so anche il tuo nome, vedi, solo che io sono ancora una crocetta, ho gli impegni la sera e la mattina, cene e pranzi e uscite, e come faccio a cancellare queste crocette, non sarei degna del tuo alzarti e chiamarmi così, da libero, libero.
Celik quella mattina capì tutto, così ci disse, però aggiunse che non si vedeva pronto, per lei dico, comunque la vita non era un gioco e almeno la croce principale, una tipo io e te viviamo qui, doveva essere capace di fissarla, fra l’altro la cartella bianca se l’era portata via, qualcosa di memorabile, ci disse.
Così Celik trovò lavoro, cioè glielo trovammo noi, e ci facemmo una gran bella figura, si capisce, Celik in un’ora correggeva i pezzi del giornale tagliando, aggiungendo, mai ammiccando…alla fine dell’anno vincemmo il premio come giornale più grammaticalmente corretto del paese, e intanto Celik l’avevamo iscritte a Lettere, l’avete già capito, la vita può partire da una cartella bianca o da un incontro ma ripartire da una lode e da cumuli di premi, e dopo cinque anni al giornale Celik, che naturalmente aveva ormai una pagina tutta sua, chiese una riunione, la prima riunione indetta da Celik, e ci chiese di pubblicare la sua storia, della cartella, della donna bianca.
Era il momento, confidò, non gliene sarebbe importato niente a nessuno, di quella storia, ma lui era disposto a pagare l’intera pagina del gionale, una sorta di inserzione pubblicitaria, un chi l’ha vista insomma.
Noi lo guardammo e più o meno eravamo per il sì, certo era un periodo politico un pò particolare e suvvia certe implicazioni non erano poi tanto trascurabili, infatti il direttore non si impose, si andò per alzata di mano, una ventata di democrazia per una storia che aveva la democrazia dentro, e fu unanimità.
Quel giorno se lo ricordano in tanti, dico, il giorno dopo, fummo intasati di mail, la metà inneggiava alla nuova linea politica del giornale e il resto minacciava ritorsioni. L’unico insensibile a politiche e condotte era Celik, a lui importava solamente quell’incontro, ma i mesi a venire furono, diciamo così, inaspettati. Celik fu invitato ad almeno venti trasmissioni TV, col linguaggio forbito in suo possesso stritolò polemiche e alimentò commozioni, e su internet il suo nome divenne piegò, nelle citazioni, gli eroi mediatici del momento.
Però la vita può piegarsi storta pur derivando rettilinea, così ci scrisse in quella lettera, l’ultima voglio dire, una lettera di dimissioni vergata da parole così intense che il direttore ne pretese un quadro per il suo ufficio.
Non l’abbiamo più rivisto, Celik, sarà laggiù, io credo, da dove se ne andò senza neanche l’angoscia in tasca…nella lettera affermò che quella storia sembrava avesse proclamato solo vincitori, la donna bianca perchè l’aveva estratto da un sotterraneo, anzi da un parcheggio sotterraneo, che anche nel senso era il culmine di una vita senza ambizioni e aspirazioni, e lui perchè era divenuto una persona di successo.
E invece, e qui le parole giacevano come oblique, come tracciate da una mano sconfitta di un’anima rotolata a terra ( è una frase sua, lui parlava così…), avevano perso entrambi, perchè quel giorno lui non esaurì i dubbi di lei, mentre lei stessa aveva fallito nel compito più semplice, quello di spostare, se non cancellare, le crocette, ecco sarebbe bastato spostarle, a volte si pensa quanto sia difficile stravolgere la vita ma sarebbe tutto più semplice, basterrebbe allargare le caselle, spostare le crocette, girare un paio di fogli della cartella della propria vita, che è bianca e invece la pensiamo, anche senza nessuno che lo imponga, già colorata di partenza.

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